Categorie: Personaggi

UNDERSTATEMENT CAMPAGNOLO

di - 7 Settembre 2008
Io non debbo comparire sui giornali, ma far sì che i giornali parlino dei miei clienti”. Siamo stati sorpresi di ricevere questa risposta la prima volta in cui abbiamo chiesto l’intervista a Sergio Campagnolo, patron di Studio Esseci. Lasciata passare qualche settimana e dopo qualche scambio di mail, siamo riusciti a convincerlo. E così ci ha raccontato la sua attività, i suoi nuovi progetti, l’idea di allargare i settori di specializzazione. Con la convinzione che la sua azienda debba sempre più puntare al modello di organizzazione perfetta ideato da San Benedetto nella sua Regola. Ovvero leadership diffusa, valori condivisi, capacità di far lavorare insieme persone motivate e consapevoli delle proprie responsabilità.

Cominciamo dall’inizio. La sua storia professionale inizia nel ‘76…
Ho iniziato del tutto casualmente, quando studiavo medicina a Padova, dov’ero ospite di un collegio universitario retto dai benedettini. Scrivevo per i giornali locali. Quando i monaci organizzarono una mostra per celebrare i quindici secoli dalla nascita di San Benedetto, si rivolsero a me come ufficio stampa. Ebbi il mio primo incarico, la mostra ottenne un eccellente risultato di stampa, ma fu merito più del valore dell’iniziativa che della mia abilità!

E poi?

Quel successo mi portò i primi incarichi professionali, che si allargarono negli anni successivi. Poi vennero il matrimonio e la scelta del posto fisso: venni assunto come responsabile stampa di una Usl, ma resistetti solo tre anni. Vinse il virus del giocatore in proprio e mi licenziai. Nel 1986 fondai lo Studio Esseci e da quel momento, con gradualità, la nostra attività si è costantemente allargata.

Quindi si ritiene arrivato?
Professionalmente direi di no, sarei presuntuoso a pensarlo. Piuttosto ho la sensazione che sia difficile incrementare ulteriormente la nostra posizione nel campo dell’arte e che, quindi, si renda necessario perseguire con determinazione nuovi sbocchi.

In che direzione?
Come passione personale, risponderei verso il settore scienza e tecnologia, nel quale contiamo su importanti esperienze, avendo già lavorato per l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare così come per importanti realtà nel settore medico e farmaceutico. Tuttavia, in questo momento, ritengo più interessante concentrarci sul settore tempo libero: itinerari ambientali, parchi, giardini storici, manifestazioni fieristiche, hobbistica, auto e moto d’epoca…

Ma non ci sono grandi differenze tra promuovere arte o scienza?

Secondo la mia impressione, il modello di comunicazione è sempre uguale, mentre cambiano gli interlocutori nei media.

E su cosa è basato?
È un modello di servizio. Puntiamo su serietà e correttezza, oltre che efficacia, nei confronti dell’interlocutore giornalista. Evitiamo un profilo urlato e di tirare per la giacca le persone: un’impostazione di servizio anche rispetto al cliente, col quale si discutono le strategie complessive di comunicazione, cercando anche modalità nuove, fuori dagli schemi.

Quanti siete nello studio? Come siete organizzati?
Siamo complessivamente in sette, organizzati con uno stile che scherzosamente definisco benedettino-toyotista. Ciascuno di noi dev’essere in grado di intervenire in qualsiasi fase del lavoro, ma deve ottimizzare la specifica di cui è responsabile. Così c’è chi si occupa principalmente di telefonare o chi segue l’arte contemporanea. Naturalmente ciascuno si specializza in un segmento, in cui cerca di diventare il più abile possibile, mantenendo però grande flessibilità.

Con quali criteri decide se un’iniziativa la interessa?

Il criterio economico non viene al primo posto e contano di più altri aspetti. Come quello della copertura territoriale, che ci orienta a seguire eventi che si svolgono su territori diversi del nostro Paese (per uno studio che ha sede a Padova, anziché a Roma o Milano, è da evitare il pericolo di essere connotati come ufficio stampa locale). C’è poi una forte componente personale, che mi porta a scegliere un evento, magari anche piccolo, perché mi stimola o perché m’interessa quella particolare situazione, quell’artista, quel critico. Altre volte perché, paradossalmente, mi stimolano le sfide impossibili.

Ad esempio?
Beh, la mostra Balkani ad Adria. Chi avrebbe mai detto che un evento nel bel mezzo del Polesine, in una cittadina che non è tra le più facilmente raggiungibili, potesse interessare a 36mila persone e ottenere sei volumi di rassegna stampa?

Ma non va a caccia di clienti?
No: ormai da una decina d’anni ho la fortuna di ricevere proposte più che di presentarle. Molto spesso capita che siano giornalisti o critici a consigliare lo Studio Esseci a realtà che non ci conoscono. E poi ci sono i clienti storici, con i quali si è costruito un rapporto di fiducia, che sono in sostanza lo “zoccolo duro” della nostra attività.

Tra questi c’è di sicuro Goldin…

Certo, ma con lui molti altri. Goldin, personaggio e personalità dalle molte sfaccettature, è per certi aspetti il critico più “romantico” che abbia conosciuto.

Più imprenditore che romantico!
Connotarlo solo come imprenditore credo sia un errore che molti continuano a fare. Le faccio un esempio: per l’ultima mostra, America, ha voluto quasi quattrocento opere. Se fosse stato un calcolatore attento solo al profitto ne avrebbe scelte la metà -che sarebbero state sufficienti per le aspettative anche di un pubblico esigente- pagando metà spese di trasporto e di assicurazione. Se Goldin si innamora di un’opera è disposto a tutto per averla.

A suo avviso, invece, c’è differenza tra lavorare per il pubblico o il privato?
Un tempo era più marcata, ora meno. Anche perché direttori di musei, sovrintendenze e assessorati oggi sono molto più attenti alla comunicazione.

Ha mai operato con gallerie?
Sono stato e continuo a essere un po’ titubante. Non per la qualità delle iniziative da comunicare -sono ormai numerose le gallerie che operano a livelli molto alti, talvolta superiori anche rispetto alle proposte di alcune realtà istituzionali- ma per aspetti pratici, legati a tempi di programmazione che poche volte risultano compatibili con quelli della comunicazione.

C’è differenza tra promuovere arte antica e contemporanea?
Direi che sta diventando più difficile veicolare notizie su mostre di arte antica di quanto non lo sia lavorare sul contemporaneo, anche se il pubblico, quantitativamente, premia più le prime che le seconde. Penso al mondo delle riviste femminili, alle testate di tendenza, a quelle rivolte a target giovanili che danno spazio in modo esclusivo al contemporaneo.

Ma allora arte antica per un pubblico maturo, contemporanea per giovani à la page?

Messa così, la distinzione mi pare grossolana, anche perché si stanno imponendo fenomeni nuovi piuttosto interessanti. C’è una fascia di pubblico tra i trenta e i quarant’anni, sia maschile che femminile, che è disposta a muoversi e fare chilometri per vedere una mostra di qualità, indipendentemente dal fatto che sia di archeologia, di arte antica, moderna o contemporanea. È un pubblico che cerca e sa godere il meglio (non necessariamente il più noto e il più ovvio), che predilige località poco abituali ed è attento al contesto ambientale. È il pubblico di quella che io definisco Slow Art -mutuando il termine dal movimento Slow Food-, costituito da persone che sanno scegliere, giudicare, premiare la qualità della proposta e del territorio. Un nuovo pubblico che non potrà che stimolare dei cambiamenti positivi nel mondo delle mostre d’arte.

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La scheda dello Studio Esseci

a cura di daniele capra

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!


Studio Esseci
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