Ho conosciuto Germano Celant nei primi anni ’80, quando ho abbandonato l’arte medievale e ho cominciato a “guardare” quella contemporanea. Mi pare a casa di Lisa Ponti, che è stata la mia guida in quel passaggio. E tra la casa di Lisa e la galleria Toselli ho conosciuto anche molti dei protagonisti dell’Arte Povera, tra i primi, Luciano Fabro, che mi spingeva a guardare, “ non solo le nostre mostre, anche quelle dei tuoi coetanei”. E intanto leggevo i libri di Celant.
Poi, come spesso succede nell’arte, tutto è diventato fluido, Germano si vedeva spesso, anche se non abitava a Milano. Gli ho fatto una prima intervista sulla rivista Modo, quando ancora la dirigeva Alessandro Mendini, l’ho seguito in molte mostre. Un’antologica Arte Povera a Torino. Poi al Ps1 a New York, Luciano Fabro mi aveva inserito in un viaggio a tariffa speciale. In seguito il Secolo XIX mi aveva mandato per la grande mostra di Mario Merz al Guggenheim. Tutte le sue mostre erano tappe in cui esprimeva posizioni, proposte e critiche per capire il mondo: “Il corso del coltello” di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen a Venezia (1985); “Periodo di Marmo – L’arte verso l’Inespressionismo” ad Acireale (1989), dove ero stata per una settimana durante l’installazione, ricordo la precisione severa nel tenere sotto controllo i tanti passaggi, la cordialità improvvisa, l’ironia e la sua costante attenzione alle idee e all’intenzione della mostra. Anche in quel caso dovevo scrivere per Il secolo XIX.
Ho sempre percepito in lui la volontà di difendere uno stile di attenzione per l’arte. Come se ogni tassello fosse parte integrante non solo della singola mostra, ma di un pensiero che voleva tenere unito anche attraverso le varianti. Una specie di battaglia politica, culturale, di vita alla quale aveva dedicato la sua coerenza. Forse per questo aveva scelto di rappresentarsi, sempre vestito di nero, un po’ rock, un po’ monaco.
Voglio ricordare quest’attitudine alla precisione e al coraggio delle idee con la mostra alla Fondazione Prada nel 2018, “Post Zang Tumb Tuum – Art Life Politics – Italia 1918-1943”. Lì il nodo era leggere la storia guardando “gli artefatti”, senza separarli dal contesto. Questa è la sua scommessa e, per affrontarla, propone uno straordinario apparato fotografico dell’epoca accanto, o meglio, dentro le opere esposte. Il suo intento è fuggire dall’ideologia del white cube, in cui, come scrive in catalogo, vede il cardine “della tipologia comunicativa modernista dei musei e delle istituzioni, delle gallerie e delle collezioni”. L’obiettivo è presentare uno “spazio reale”, in cui far emergere le relazioni “tra segni e tracce all’interno di un sistema culturale”, dove avviene “l’adattamento dell’artista che per sopravvivere al regime, difende la propria autonomia linguistica rimanendo però indifferente alla sua strumentalizzazione”. Nello “spazio reale di questa mostra” appare una verità nota: in Italia il consenso al fascismo era altissimo.
Celant ha deciso di non mascherarlo nella qualità dei quadri. Forse è stato il modo di riscattare “l’artefatto”, di rimetterlo in circolazione per quello che è. Insiste con acribia nella definizione di “artefatti” che collega alla storia reale, con la politica del fascismo. Tutti abbiamo, alle spalle, parenti fascisti, li abbiamo frequentati, contestati, amati. L’opera può andare oltre il fascismo esterno, quello del contesto, messo magistralmente in mostra, ma non da quello interno. La visione “reale” di fotografie e opere dice che, tranne la minoranza che l’ha rifiutato, fascisti erano anche gli artisti. Una grande svolta critica.
Il lascito di Celant, che voglio ricordare: per capire da dove veniamo e perché guardiamo il mondo in un certo modo, non dobbiamo dimenticare che l’arte registra le invenzioni interne, ma anche le adesioni alla storia. A una reale distanza prospettica si scoprono emozioni e bellezze anche in chi non condividiamo. Il virus, che l’ha contagiato, ci impone di creare “artefatti” diversi, senza separarli dal contesto e senza adattarsi all’ideologia del “white cube”.
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