Quando Adriana Polveroni è stata nominata ad ArtVerona, alla fine di marzo 2017, siamo stati tutti sicuri che non sarebbe stato un compito facile. Né il mio, né il suo. Lei con una fiera cresciuta grazie alla guida di Andrea Bruciati, ma ancora da tirare su; io con l’eredità ingombrante di un giornale che, insieme ad Adriana, avevamo salvato da una fossa già scavata. Oggi, anziché darvi numeri, sezioni e “effetti speciali” di ArtVerona, ho deciso di intervistare la mia ex direttrice cercando di far emergere un po’ di storie, che è poi lo stile che preferisco. Tanto i risultati, quelli di ArtVerona e anche di Exibart, un po’ li avete visti…
Non penso di averti mai intervistato, abbiamo sempre avuto il “complesso” del conflitto di interesse! Stavolta però ci divertiamo un po’. Tre anni fa hai lasciato Exibart per Verona, e questa è l’ora dei bilanci. Tra i “ma chi te lo ha fatto fare?” e gli incoraggiamenti, che esperienza è stata dirigere una fiera?
«È stata una storia forte, interessante come, per mia fortuna, quasi tutto (proprio tutto no, in realtà) quello che ho fatto nel mondo dell’arte. Ho capito certe cose di questo mondo, del mercato, dei galleristi e di cosa significa lavorare per una grande azienda, cosa che anche alla mia età non guasta. E ho imparato un paio di cose del famoso Nord Est italiano».
“Mercato” e “collezionismo” mi sembrano, nonostante gli incroci, due universi molto distinti. E mi sembra che tu abbia riflettuto molto su questo dualismo che finisce in una unione di fatto, nella composizione di ArtVerona…
«Sì, ho cercato di avvicinarli per tirare fuori il meglio da entrambi (ma che presuntuosa, sta ragazza! Me lo dico da sola). Però è vero, sono sempre stata convinta che il mercato non fosse un moloch da temere e verso cui stare in guardia, se non altro perché l’arte è sempre andata dove ci sono i soldi. E, d’altra parte, ciò che più mi attira del collezionismo è la possibilità di una sua declinazione responsabile e orientata verso la società. Ho cercato di mettere insieme questi due elementi e ho cercato – questo, sì, tentativo parecchio ambizioso – di correggere le storture del mercato dall’interno. Del resto io sono una donna dalle, delle “imprese impossibili”. Exibart ai miei tempi, non ai tuoi di oggi, lo era».
Quanto ti ha aiutato il tuo trascorso di giornalista, più vicina alla comunicazione quindi, nella gestione della fiera?
«Penso abbastanza. In qualunque lavoro penso sia molto importante non solo saper comunicare, ma essere curiosi, avere il piacere di cercare, scoprire, capire. E se non hai queste doti (sì, doti!) il giornalista non lo fai. Essere abituati a semplificare per comunicare, senza abbassare la guardia, è essenziale per fare bene le cose e farsi capire. Ed è importante saper confezionare un’offerta, dopo aver imparato a confezionare una notizia».
Due consigli che ti hanno dato in questi anni: quale è stato il più azzeccato, e quale il più sbagliato?
«Non saprei. Alla fine di consiglio me ne è sempre e solo arrivato uno, da un caro amico di Verona. Ma non si può rivelare».
A quali “modelli” ti sei ispirata a questi anni per la tua ArtVerona? Qual è, secondo te, in linea generale, una fiera che “funziona”?
«ArtVerona non somiglia a nessuna fiera italiana e, direi, neanche a nessuna fiera straniera. Ha una personalità molto precisa, che è fatta di un mix, tra locale e non locale, tra contemporaneo e moderno, tra collezionisti raffinati e collezionisti meno main stream che però fanno gola alle fiere più blasonate, tra gallerie di ricerca e “gallerione”. Il tutto in una città unica quanto a bellezza e a capacità di ospitalità. Quindi, io non mi sono ispirata a nessuno – non è neanche nelle mie abitudini farlo – e spero che ArtVerona continui a non ispirarsi a nessun’altra fiera, consolidando la sua precisa, sebbene non facile, autentica personalità».
Facciamo un passo indietro però: cosa deve avere una fiera per “funzionare”?
«Anzitutto non deve essere spocchiosa (detesto la spocchia, sempre). Deve far sentire a proprio agio il collezionista al top e il visitatore che entra per la prima volta in una fiera e chiede quanto costa un quadro. Deve essere fresca, attraente, avere una bella energia. Ma tutto questo non dipende solo dallo staff, la differenza la fanno molto anche i galleristi: se la fanno con la mano sinistra o se ci credono. E la fa anche un certo tipo di collezionismo, che deve esserci. Mi riferisco ai collezionisti attenti e informati che, anche se non comprano, rendono gratificano i galleristi. E poi, ormai, dato l’affollamento delle proposte deve avere un bel programma fuori-fiera. Cosa per la quale mi sono battuta in questi tre anni, convinta che i collezionisti migliori li attrai se, oltre una buona fiera, gli proponi un programma di qualità. E convinta del fatto che oggi una fiera deve essere anche una proposta culturale complessiva».
Il pubblico di una fiera, quello che “fa un giro” tra gli stand – se escludiamo gli studenti che si autoeducano – a che serve?
«A quello che ho detto prima. Può contribuire al successo della fiera se anche lui si sente motivato e almeno un po’ coinvolto. Non si tratta solo di numero, quantità».
Che cosa farai ora di questo nuovo “bagaglio professionale” che hai messo tra le esperienze? Ti vedi a dirigere un’altra fiera o, imparata questa arte, la metterai da parte?
«Un’altra fiera direi proprio di no, soprattutto in Italia dove ci sono ottimi direttori al lavoro. All’estero potrebbe essere già più interessante. Ma magari trovo il tempo finalmente per pensare un po’ e scriverci sopra un libro».
Mentre conosco bene la giornata di una redazione, mi è ancora un po’ più misteriosa la giornata a capo di una fiera: quanto tempo si passa al telefono? A quante e-mail rispondi? Quante cene sono finalizzate a portare risultati ad ArtVerona? Ci sono periodi in cui non si lavora?
«Dipende dai periodi. Per me che non vivo a Verona ovviamente l’email, il telefono, whatsapp e a volte anche Skype sono piuttosto bollenti. Quasi sempre. Ma questo l’ho voluto io, perché non volevo fare una fiera di tre giorni, ma un progetto che si distribuisse nel corso dell’anno. Ecco, quindi, l’impegno per i road show, gli incontri che facciamo periodicamente tra collezionisti e galleristi, il corso Collecting che quest’anno ho ideato e che abbiamo realizzato nel Nord Est. Poi ci sono le normali relazioni, gli incontri, le idee che, per fortuna, non vanno mai in vacanza. Ma cene poche, siamo pur sempre nel Nord Est operoso».
Le tre cose migliori di ArtVerona allo stato attuale, di cui la fiera dovrebbe fare tesoro?
«La sua identità, mettere in gioco con più coraggio la squisita bellezza della città, essere sempre di più un punto di riferimento per il collezionismo, soprattutto per un certo tipo di collezionismo».
Togliti un sassolino, o anche due, dalla scarpa…
«Sassolino? È un bravissimo artista che vive in Veneto».
E, dopo ArtVerona, Adriana che fa?
«Hai presente quella canzoncina lanciata a Sanremo scorso: “Una vita in vacanza …libertà e tempo perso. E nessuno che rompe i …”. È il mio sogno! Mi sa poco realizzabile, per tanti motivi. Oltre la vacanza, mi piacerebbe tornare un po’ a scrivere e soprattutto a pensare. Magari – perché no? – a qualche nuovo progetto».
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