«L’artista porta allo scoperto quello che gli altri non vedono… Siamo tutti come Omero che, nonostante non possa vedere, svela la storia di Ulisse, l’epopea della conoscenza», Adel Abdessemed, artista algerino, ma in Francia da quando è fuggito dal proprio Paese di origine, realizza opere che sono indagini sul mondo che destabilizzano come terremoti. Perché la violenza è una delle componenti essenziali della realtà. Così mostrarla e raccontarla diventa denuncia e provocazione estrema che può assumere una funzione catartica. E porta con sé la speranza di un possibile cambiamento. I suoi lavori sono visibili fino al 31 marzo 2024 negli spazi dell’Arco dei Becci (Jam Proximus Ardet, La Dernière Vidéo, del 2021) e all’interno della sede di Galleria Continua a San Gimignano, nella collettiva Tensione Continua curata da Carlo Falciani.
Lei si prende la responsabilità di essere testimone del suo tempo. Così come si è rappresentato nel suo video in prua a una nave che brucia a testa alta. Oggi che il mondo “brucia” per cosa dobbiamo combattere e a cosa dobbiamo resistere?
«Ci sono fatti e convinzioni che continuano a ripetersi, e che vanno cambiati. È come se fossero delle prigioni in cui continuiamo a vivere e spetta all’artista trovare una possibilità di uscita. Il video Jam Proximus Ardet, La dernière vidéo 2021 (in mostra da Galleria Continua a San Gimignano fino al 31 marzo, ndr) è un’allegoria di tutte le tragedie che sono accadute e ancora accadono nel Mar Mediterraneo. Ma anche il mondo che brucia di autocombustione… Nel 2024 ci sono ancora delle cose nel nostro comportamento che dobbiamo cambiare. Come il modo di comportarci nei confronti del nostro Pianeta. O come nel caso della questione femminile. Oggi la battaglia contro il patriarcato è fondamentale».
Cosa può fare un artista?
«Un artista non fa la rivoluzione, certo, ma può cambiare quello che accade attorno a sé. Per esempio, un’opera come la Libertà che guida il popolo di Eugéne Delacroix è stata un’opera manifesto a difesa della rivoluzione e delle libertà. Non ha cambiato il destino della storia francese, però è una testimonianza (esposta al Salon di Parigi nel 1831. Fu subito acquistata dal governo francese, ma rimase praticamente nascosto fino alla Terza Repubblica perché considerato troppo rivoluzionaria, ndr). Questo è anche l’obiettivo della mia opera Hope, dove ho messo dei sacchi della spazzatura su un vecchio peschereccio. Non risolve il problema dei migranti che arrivano in cerca di speranza e muoiono in mare, ma colpisce lo spettatore, lo costringe a riflettere».
L’effetto delle sue opere mi ricorda ciò che Peter Brook scriveva fosse necessario per il teatro: uno spettacolo è equilibrato quando lo spettatore esce squilibrato…
«Sì. Questo deve fare un’opera d’arte per me. Coinvolgere per far pensare. Io sono un artista con un’etica, una morale civile, che si impegna per provare a cambiare qualcosa».
Lei usa una infinita varietà di materiali spesso simbolici. Come il filo spinato di Guantanamo nei Cristo di Decor, oppure il fuoco come simbolo di tutte le rivolte come in Tonight no man sleeping o per la performance Je suis Innocent. E ancora, il legno bruciato di Otchi tchiornie esposta alla mostra Tensione continua a San Gimignano. Come li sceglie e cosa vorrebbe usare che ancora non ha sperimentato?
«Sono scelte che possono cambiare. Si adattano al progetto. Si può sbagliare con la scelta dei materiali. Può essere il sogno di giorno. Poi si può decidere per altro, come nel caso del “non monumento” Colpo di testa, che rappresenta la testata Zinedine Zidane contro Marco Materazzi durante la finale Italia-Francia dei mondiali del 2006. Io avevo deciso di realizzare quest’opera con un blocco di marmo di sei metri di altezza, con lo scontro dei due calciatori all’interno. Poi nelle riunioni con il comune di Parigi (è stata collocata fuori dal Centre Pompidou a Parigi nel 2012), i responsabili del Centro Pompidou, insomma tutti quelli che partecipavano al progetto hanno posto diverse questioni dalla sicurezza. Si sono preoccupati che potesse cadere e quindi per questo in marmo sarebbe stato troppo pesante. Allora si è deciso di farlo in bronzo, alto cinque metri. Dopo questa decisione continuava a ripetersi nella mia mente la domanda “Monsieur Adel, hai tradito il progetto iniziale?” E alla fine mi sono convinto».
Si tratta di un non-monumento…
«Sì, tutti i monumenti di solito sono celebrativi di una vittoria. Non è questo il caso, questo celebra una sconfitta, che è quella dell’uso della violenza. Simboleggia la violenza per vedere che effetto aveva sul pubblico. E un gesto vuoto, ma pieno. Un ricordo, un monito. Ho voluto realizzarlo dopo che ho visto l’episodio in tv e queste immagine hanno lavorato dentro di me per mesi. Poi ho realizzato la maquette. Ed è iniziato il lavoro».
Lei realizza spesso opere monumentali. È perché è più facile colpire e fare capire il messaggio che vuole far passare?
«Non è tanto una questione di monumentalità, ma di dimensioni. Conta il contenuto che vuoi far passare. Habibi (un grande scheletro in orizzontale con un enorme ingranaggio del motore di un aereo) è stata un’opera creata dopo il trauma dell’11 settembre per questo c’era una parte del motore di un aereo. Volevo ricordare il passaggio tra la vita e la morte».
Lei ha realizzato il suo sogno di essere un artista conosciuto che racconta la sua epoca. Quanto le è costato?
«Il successo viene da buone decisioni, e le buone scelte vengono dall’esperienza, ma l’esperienza arriva da numerosi errori. [ride] E uno di questi può essere anche il delirio del successo».
Che cosa le dona ancora la forza di ribellarsi?
«Porto le parole di mia madre. Le ridò la voce che non ha avuto. Lei era berbera e la sua lingua è stata repressa dall’arabizzazione musulmana. Una grande sofferenza, anche perché la lingua di mia madre è stata interdetta proprio da mio padre. E così io da piccolo sono cresciuto con un esempio di repressione. La lingua di mio padre si è imposta. Sento il desiderio di conquistare la giustizia che mia madre non ha avuto. Anche se è importante riflettere sul concetto di giustizia».
Cosa intende?
«C’è una grande differenza per un artista essere con la giustizia ed essere giusto. Per fare rispettare la prima ci sono le leggi. Essere giusto è invece una scelta personale, significa avvicinarsi il più possibile a ciò che è meglio fare. Non c’è una legge. L’artista ha bisogno dell’errore. E a volte l’artista può ferire. Per esempio, mi viene in mente Leonardo che sezionava i corpi per capire e studiarli meglio. Però i suoi disegni di anatomia sono stati fondamentali per la scienza».
Quanto conta il tempo nelle sue performance?
«Il tempo è l’immaginazione. Il tempo si piega all’opera. Il tempo è molto sottile perché rischi ma non lo calcoli. L’artista non è un orologio. Non si può pensare qualcosa di rigido. Deve stare attento se è nell’acqua con i pesi quando è in immersione per tornare in superficie quando è il momento».
Qual è il suo metodo di lavoro? Ha una routine?
«Non ho un modo regolare, che si ripete sempre uguale. Sto in studio, ascolto musica, ho un’infinita collezione di vinili, leggo, penso. Mi sveglio molto presto, mi occupo molto della mia famiglia. Ma quando lavoro a un progetto sono molto concentrato».
A quali lavori dedicherà i prossimi mesi?
«Sarò il regista dell‘opera in tre atti San Francesco di Olivier Messiaen che andrà in scena a Ginevra. È la prima volta che mi occupo di una regia. E preparerò una grande mostra che aprirà a Tel Aviv il 23 maggio prossimo».
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