798 CIRCUS |

di - 27 Aprile 2007

Che sta succedendo al 798? Come si stanno trasformando le vecchie warehouse e le smisurate ciminiere famose ormai sia in patria che all’estero, meta di chiassose scolaresche, gruppi di turisti preceduti da guide con la bandierina e grassi signori alla ricerca dell’affare? Cosa anima il nuovo 798 art district management office, che annovera esponenti del 7 star group e del governo del distretto Chaoyang alle prese con un’opera di repulisti di personaggi scomodi e impegnati ad imporre regole che niente hanno a che fare col mondo dell’arte?
Soffocata nella culla, sbattuta fuori dalla fabbrica, la quarta edizione del Dashanzi International Art Festival (DIAF), per necessità politico-logistiche e soprattutto con un gesto di dignità dei suoi promotori, prende armi e bagagli e si sposta. In una realtà in cui i nomi, concept e loghi vengono copiati senza scrupolo e non esiste rispetto per il copyright (cosa che ahimè accade anche nella nostra amata madrepatria), il festival con abile mossa si “trasforma” in Dangdai International Art Festival (dangdai significa contemporaneo) conservando l’acronimo e logo DIAF, in barba al festival fake del 798, che sta cercando di sfruttarne la fama acquisita.
Invece che nelle classiche date di maggio viene riprogrammato in autunno (22 settembre – 14 ottobre), e diviso in varie sedi con una particolare attenzione al distretto di Dashanzi. Sono coinvolti spazi alternativi, gallerie e istituzioni, la fiera autunnale internazionale Art Beijing, artisti e curatori. E naturalmente alcuni spazi del 798, ai quali le recenti imposizioni stanno strette.
Al suo posto, dicevamo, il 798 Art Festival, neonata sagra popolare mascherata da festival internazionale e pilotata dal gruppo dei reduci della cupola del comando della fabbrica, con un ufficio-avamposto dalle intenzioni bellicose. Perchè? Cos’è che fa gola?
Ereditare la direzione e il ruolo organizzativo del festival e gestirne gli spazi rappresenta un grosso business. L’affitto degli spazi e il relativo aumento dei prezzi (da circa 150 euro per 100 mq del 2003 -lavori di ristrutturazione e utenze a parte- in previsione delle olimpiadi del 2008 si sta passando a 900 euro, più il resto; contratti con durata meramente annuale e ricatto continuo di sfratto renderanno tutti molto più malleabili verso le loro decisioni). E, ancora, la torta degli sponsor e la gestione di coloro che vorrebbero ottenere spazi nella fabbrica e fanno la fila per un posto al sole fa lievitare gli appetiti del facile arricchimento. Ma è l’abbattimento di parte delle strutture architettoniche meno qualificanti e l’edificazione di residenze e palazzi-uffici (per le quali Wang Hui della Limited Design, con già all’attivo il design del Today Art Museum a Pechino, ha fornito relativo progetto) ad interessare ai boss del 7 Star Group ammanicati col potere, vecchio e nuovo (per avere un’idea della posta in gioco, una fonte attendibile, ma non citabile per ovvie ragioni, afferma che nel 2004 un’inchiesta di temerari giornalisti del quotidiano The Beijing News -Xin Jing Bao- ha portato alla luce operazioni speculative illecite ed interessi da capogiro, ricatti e fughe all’estero di politici e imprenditori. scoperti ma intoccabili i primi, zittiti e allontanati a canton i giovani giornalisti).
Perchè Huang Rui , esponente del gruppo delle stelle, avanguardia artistica nata alla fine degli anni ’70, già oggetto di repressione da parte delle autorità, fuggito in Giappone per anni, promotore della rinascita della fabbrica a fine 2002 sotto forma di quartiere artistico, iniziatore del festival di Dashanzi, elegante nei modi, nei gusti e nelle scelte, viene sbattuto fuori dal suo studio minimal e accattivante alla scadenza del contratto di affitto? Lo incontro nel suo ex-bar (ha dovuto cedere la proprietà alla sorella) e davanti ad un caffè Illy cerco di indagare sulle reali ragioni che lo hanno reso così inviso al management. Risponde pacato: “non era possibile per me collaborare con piccoli travet, gente che non appartiene al mondo dell’arte e che l’arte l’ha sempre soffocata, interessata ora però allo sfruttamento degli spazi dell’ex fabbrica e non a valorizzarne l’aspetto artistico o i progetti culturali. Come era possibile collaborare con persone che da un lato mi invitavano a guardare assieme al futuro del distretto artistico, dall’altro mi staccavano luce e acqua?
Interpellati uno ad uno, curatori come Feng Boyi e Gao Minglu hanno rifiutato l’offerta di condurre il nuovo festival real-popolare, finchè chissà quali vantaggi hanno irretito un altro curatore (lo stesso che ha presentato un progetto per una mostra a maggio 2008 a Roma). Nell’ambiente si mormora tuttavia e la questione abbia indignato in parecchi, nel distretto e fuori.
A Pechino tutto è possibile. Nel caos generale, gallerie aprono in contemporanea personali dello stesso artista o inaugurano collettive con un identico gruppo di artisti a pochi giorni una dall’altra. Curatori mettono su nuovi spazi e cercano anche loro di accaparrarsi contratti in esclusiva con artisti già celebri.
Quattro mura imbiancate, opere o stampa di quadri diventati oramai inaccessibili per i prezzi lievitati nel mercato internazionale e locale, inviti dal design caotico, scarni sms ad amici, patatine + sprite o salami e l’avventura comincia! Ecco la nuova fase artistica del kitsch, del gusto per le ammucchiate di 30-40 artisti stipati in spazi poco invitanti, dell’assoluta mancanza del dettaglio. La preistoria fa rima con ingenuità? Fatto sta che, affamati di arte, a questi opening orde di curiosi-golosi accorrono in massa. L’arte contemporanea alla cinese, l’arte dalle caratteristiche locali fa proseliti anche nel caos totale. La parola chiave è magna magna generale: dell’indotto, degli intermediari, dei funzionari implicati, degli ex-operai. Ristoranti che nascono laddove un anno prima avevamo visto una latrina accanto a mega-gallerie trendy, caffè che spuntano come funghi. “E’ un modo per sopravvivere in un ambiente non ancora maturo e dai labili confini“, continua Huang Rui, “è il contributo che ognuno di noi si sente di offrire per rafforzarci e consolidare il settore dell’arte che a volte vacilla sotto le spinte del potere o della censura o dei ricordi del passato“.
Mi suggerisce Huang Yan, l’artista che fotograf a pittura di paesaggio tatuata su busti umani e che ha aperto una galleria: “la libertà di esporre i lavori che non rientrano tra la scelta dei galleristi, la libertà di aiutare amici artisti rappresenta un risultato importante.” Ma forse che dalle nostre parti non succedono situazioni weird? Quali sono le vere ragioni che hanno permesso il fit tra una galleria cinese (danarosa, nata appena 6 mesi fa nel 798 con una sede in Thailandia) e MiArt? Quali delicate strategie commerciali, ammantate d’arte e addolcite di lusinghe zucchero e miele, si nascondono dietro operazioni e progetti di mostra senza veri curatori? Alberto Moravia annotava che chi viene in questo Paese per una settimana scrive un libro, chi vi soggiorna per un mese produce un articolo, coloro che vi risiedono a lungo non possono che lasciare il foglio in bianco. Alla mia domanda Huang Yan sorride coi suoi occhi rotondi e l’aria trasandata. E capisco che le cose vanno come devono andare.
Nonostante tutto, comunque, nonostante la sabbia e le polveri dei cantieri portate dal vento primaverile, ancora vagano spiriti liberi, diversi e con qualche ideale. Nonostante tutto, alcuni lasciano il campo ai nuovi arrivisti e ricominciano una nuova avventura.
La sconfitta è la madre della vittoria. Così recita un detto cinese.

yukio scar

[exibart]


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  • molto interessante, grazie yukio. Ma che ne è della China Fair che avrebbe dovuto nascere a latere di Art Basel di cui si parla almeno da due anni?

  • Scusa,sono una studentessa da Pechino.

    Puoi mi spiegare che cosa ¨¨ "tanto caos"?Non capisco bene.Secondo me,Pechino ¨¨ molto bello e pacifico.

    Pensi tutti cinesi non conoscono la lingua italiana.Ma non'¨¨ cosi.Per favore,essere giusto.

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