«La domanda più noiosa a uno scrittore? Che ne pensi dell’e-book. Nulla, non penso nulla. La scrittura è l’unica forma d’arte dove il supporto non influisce sul risultato. Il supporto del linguaggio letterario è la mente dello scrittore». Sul palco del Teatrino Viaggiante del “Narni Città Teatro”, Nicola Lagioia ha aperto la quarta edizione del festival che anima l’antico borgo umbro dal 16 al 18 giugno.
Lagioia, scrittore, conduttore radiofonico e, per sette anni, direttore del Salone del libro di Torino, ha fatto viaggiare il pubblico presente attraverso più di duemila anni di letteratura con il suo one man show Presto saprò chi sono. Spettacolo colto, divertente, irriverente, è la mise en place di una lezione di storia della letteratura che viaggia tra Platone, il nemico della narrativa uccisa dalle sue rigide categorie, e Pessoa con il suo poeta fingitore. Da Nabokov – per il quale la letteratura nasce quando un ragazzino ha gridato “al lupo al lupo” e gli hanno creduto, anche se il lupo non c’era – a Ungaretti che in “Veglia” (Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato) descrive in una sola frase quello che molti moderni autori non ti fanno capire in un intero capitolo.
Pagine di letteratura lette senza saccenteria, restituendoci un don Abbondio che incontra i bravi con lo stesso atteggiamento del ragionier Fantozzi davanti al megadirettore; ricordandoci – come diceva Kafka – che la letteratura non serve a salvare il mondo, ma è un’ascia per rompere il mare ghiacciato dentro di noi; che – come sottolineava Nabokov – lo scrittore è un affabulatore, ma che la letteratura è innocente perché, nel raccontare la sua finzione, si dichiara colpevole, a differenza della politica che è colpevole perché si dichiara innocente. Ma, in fondo, cos’è la letteratura se non una forma di comunicazione? Dimenticata la retorica di Gorgia, Cicerone o Aristotele, chi è oggi il retore, “colui che parla in pubblico”? Tra i vicoli di Narni, al termine dello spettacolo, con Nicola Lagioia abbiamo parlato di comunicazione e di un Salone, quello del libro di Torino, che in sette anni, grazie a lui, ha visto raddoppiare lo spazio espositivo e le vendite, è rinato dopo il fallimento della Fondazione, ha raggiunto i 50mila contatti su TikTok e 200.000 presenze fisiche.
Nell’ottica dell’occupazione delle poltrone, diventa appetibile anche il Salone del Libro di Torino?
Il salone in realtà è stato appetibile in tutti gli ultimi anni, perché è andato ogni anno meglio del precedente. Sono convinto che il Salone abbia la capacità, i numeri e la struttura per rimanere indipendente e confido che rimanga tale.
Gli influencer sono i nuovi retori?
Gli influencer ci sono sempre stati. Ora il fenomeno è completamente diverso rispetto al passato a causa della tecnologia. Quello che mi preoccupa, dal punto di vista della comunicazione contemporanea, non è come questo tipo di linguaggio viene utilizzato non da chi vende prodotti, come Chiara Ferragni, ma nella comunicazione politica. Il fatto che i politici utilizzino i social, che il linguaggio della politica sia fatto da slogan, che la comunicazione sia affidata ai caratteri di Twitter, comporta un impoverimento del linguaggio che è pericoloso, perché più il linguaggio di chi comanda è semplice, più tenderà alla persuasione. Una simile comunicazione politica manifesta una disintermediazione, ossia non c’è un apparato atto a garantire le sciocchezze che dicono i singoli politici. Basti pensare all’utilizzo che ha fatto Trump di Twitter, a come la rivolta di Capital Hill sia stata orchestrata attraverso un social. Le parole di simili esponenti politici vanno filtrati da un apparato che ha il compito di tradurre in modo meno pericoloso certi messaggi. Nella comunicazione politica questa linea diretta con l’elettorato mi preoccupa.
Il ministro della Cultura Sangiuliano ha dichiarato che si è “autoimposto” la lettura di un libro al mese. Un tempo c’era la diatriba tra cultura di destra e di sinistra. Forse dovremmo chiederci se c’è ancora cultura?
Un ministro della Cultura che dice che deve imporsi di leggere un libro al mese, vuol dire che non legge. Non faccio il ministro della Cultura, leggo 20 libri al mese e non me lo devo imporre, perché qualunque lettore forte non si deve imporre di leggere un libro. Questo evidenzia un aspetto che non riguarda Sangiuliano come persona, ma come rappresentante di un’intera classe politica: noi abbiamo la classe politica e dirigente che legge di meno in Europa.
E cosa ne pensa di questo tentativo di “egemonia culturale” da parte di questa nuova classe politica al potere?
Quello dell’egemonia culturale mi sembra una fesseria. C’è stata un’egemonia della sinistra di quella che viene chiamata la cultura alta, ma per quanto riguarda la cultura popolare è stata paradossalmente più gramsciana la destra che la sinistra. Pensa alle reti Mediaset e ora anche all’occupazione della Rai: il fatto che ci siano sei canali nazionali su sette che siano appannaggio di quelli che vogliamo chiamare conservatori, ti fa capire che se c’è ora un’egemonia culturale, non è di sinistra. Per quanto riguarda invece le espressioni artistiche, i grandi romanzi non nascono per ordine di un decreto ministeriale. Se dovesse emergere, parlando di scrittori di destra, un nuovo Curzio Malaparte, lo festeggeremo, come se in Italia ci dovesse essere un Michel Houellebecq.
Gli scrittori sono politicizzati?
Parlare di scrittori di destra o di sinistra è riduttivo, perché stai limitando quello che è più sfaccettato, ricco di contraddizioni. Mi sembra la vecchia scusa, di destra come di sinistra, per andare ad arraffare un po’ di posti. Ma l’accaparramento di posti non incide sulla nascita di un grande film, di un grande romanzo, di un grande spettacolo teatrale. Non è che per decreto ministeriale uno può rendere Pingitore un regista più importante di un Luchino Visconti, ad esempio. Non è che la cultura, e la coltura, di destra abbia prodotto chissà che. Non è colpa della destra o della sinistra se Fabrizio de Andrè è un cantautore più importante di Povia. Non lo decide la politica il fatto che Carlo Ginzburg è un filosofo più importante di Marcello Veneziani o che il fumetto di Zerocalcare è più popolare di un omologo fumettista di Casa Pound. Sono i lettori che determinano la popolarità.
Ciò che è accaduto al Salone di Torino, con le proteste scatenate contro la ministra Roccella, è stato raccontato correttamente?
Uno dei commenti più interessanti sull’accaduto è stato quello di Laura Onofri che diceva: ci sono due diritti che si sono sovrapposti. Da una parte la libertà di espressione della ministra Roccella, dall’altra la libertà di esprimere il proprio dissenso. È vero che, come direttore del Salone, avrei voluto che la ministra Roccella potesse presentare il suo libro, però faccio un’altra considerazione: il Salone del libro è stato aperto da Ignazio La Russa, Presidente del Senato. Ai tempi de La Russa, la destra e la sinistra risolvevano le loro questioni a colpi di pistola, manganellate, bombe. Cosa che questa generazione non fa perché è pacifica. Trovandosi anche in una situazione più complicata, con meno prospettive rispetto alle generazioni di una volta.
Pensa che sia una generazione con minor capacità di reagire?
Si può dire che questa generazione esprime il proprio dissenso in una forma più matura rispetto a come lo esprimevano i giovani della generazione di La Russa, quando c’erano da un lato le brigate rosse, dall’altro episodi come la bomba alla stazione di Bologna. Questi ragazzi sono i veri assenti nella questione con la Roccella. Ho parlato io, ha parlato la Roccella, hanno parlato tutti tranne i manifestanti. Nessuno, anche dal punto di vista mediatico, ha chiesto loro che cosa volessero. Nel momento in cui non viene data loro centralità, rappresentanza, voce, perché non hanno nessun potere, rischiano di radicalizzarsi. Non dimentichiamo che manifestano per cause legittime di interesse globale, come il cambiamento climatico. Manifestano poi per i loro diritti: contestavano alla ministra Roccella di essere antiabortista, un atteggiamento politico, da parte di un’esponente di Governo, che non li fa sentire tutelati e tutelate. L’oggetto della protesta è una questione che merita un dibattito pubblico. Se noi non diamo spazio alle ragioni di questi ragazzi, se non diamo loro rappresentanza, corriamo il rischio di una radicalizzazione in futuro.
Susanna Tamaro, a causa di una lettura superficiale di un suo intervento, ha diviso i media sull’utilità che un autore come Verga venga ancora letto in classe. Il problema è Verga o la preparazione scolastica dei ragazzi?
E una faccenda che non ho seguito: ho letto solo i titoli. Ma, sapendo quanto i media le sparino grosse, probabilmente stava facendo un altro discorso e hanno ingigantito una frase. Secondo me il problema sono gli adulti che non leggono. I ragazzi leggono: fumetti, altri libri. Sono preoccupato più per gli adulti che per i ragazzi.
Sul palco del Teatrino Viaggiante hai citato Pessoa: “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a credere vero il dolore che veramente sente”. Il politico è quindi un poeta?
Un poeta no, un fingitore sì.
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