Non so se ve ne siete accorti, ma questo decennio è paurosamente identico agli anni Ottanta. Nell’estate del 2006, sui quotidiani calcistici italiani, le analogie con i Mondiali del 1982 erano fin troppo spontanee: Pablito El Matador, l’urlo di Tardelli, un Paese che si risveglia di colpo da una crisi durissima, giusto in tempo per piombare in un’altra ancora più grave, che dura ancora oggi. A quell’epoca, come afferma Silvio Lanaro,
“a tenere insieme i cocci ancora sani” della Repubblica è in realtà
“una grandiosa operazione di cosmesi teatrale, dove dietro le spalle curve dell’attore consumato -mai istrione, ma sempre ben conscio della parte che sta recitando- si accumulano le macerie che nessun artificio di transfert
riesce a smaltire”.In tutto il mondo, spopola da qualche anno il
revival della “lost decade”, che coinvolge la musica con sonorità spudoratamente neo-synth-pop e cloni dei
Duran Duran e dei
Depeche Mode, ma che non risparmia neanche la moda e -ahinoi!- l’arte. È chiaro, perciò, che per comprendere ciò che sta accadendo oggi nel mondo, occorre analizzare e interrogare quel periodo, che racchiude
in nuce praticamente tutti gli sviluppi futuri.
Gli anni Ottanta si inaugurano con l’ascesa al potere di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, con il dilagare del neoespressionismo pittorico e con
Boy (1980), debut album degli
U2. Questo disco rappresenta un utile punto di riferimento, dato che -insieme a
My Life in the Bush of Ghosts di
Brian Eno e
David Byrne– costituisce il discrimine perfetto tra gli anni Settanta e l’epoca nascente: vale a dire, tra la psichedelia e, soprattutto, il punk da una parte, e il pop sognante, ma pur sempre impegnato, dall’altra.
Così, pezzi come
I will follow e
Twilight ci restituiscono l’immagine di una band giovane ma non giovanilistica, carica di tutta l’energia e la carica emotiva che oggi purtroppo sembrano latitare in una realtà musicale popolata unicamente di precocissimi vecchi e di androidi con la chitarra. Certo, l’anno prima era uscito un altro disco-rivelazione,
Three Imaginary Boys dei
Cure, che per il momento rielaboravano e addolcivano sapientemente la lezione di
Sex Pistols e
Clash: ma il biglietto da visita di Bono & Co. costituisce davvero una sintesi mirabile e unica fra istanze apparentemente inconciliabili, suggerendoci -come in un romanzo di storia alternativa- quello che gli anni Ottanta
avrebbero potuto essere (e non sono stati, o almeno non del tutto).
Ma il vero gruppo-spartiacque sono sicuramente i
Joy Division, a cui vanno riservati uno spazio e un discorso a parte: essi costituiscono infatti un unicum nella storia del rock, i soli -insieme forse ai
Public Image Limited del redivivo
Johnny Rotten– in grado di fondere universi lontani come il punk e il reggae, il concettualismo e il neoromanticismo. Un ruolo simile lo svolge in letteratura
Bret Easton Ellis, che debutterà nel 1985 con il caustico e memorabile
Less Than Zero, primo fulminante capitolo di una saga ancora in corso d’opera, e che troverà in
American Psycho (1989) il capolavoro assoluto e insieme la critica definitiva, senza appello del decennio. Parallelamente, sull’altra sponda dell’Atlantico,
Alan Moore consegnerà alle stampe il suo gioiello,
V for Vendetta, brillante distopia anarcoide e lucido attacco alla società inglese plasmata dalla Lady di Ferro. Ma questa è una storia che riguarda la fine del decennio.
Ritornando agli inizi, ecco
Rio (1982) dei Duran Duran, utilissimo per comprendere le radici profonde degli anni Ottanta. Canzoni come la stessa
Rio,
Hold Back The Rain, ma soprattutto
My Own Way, infatti, ci rivelano esplicitamente come il modello compositivo ed estetico, a questa altezza, sia proprio il glam rock di
David Bowie e dei
Roxy Music. Il glam si presenta dunque come il periodo, per così dire “arcaico”, di elaborazione delle premesse postmoderne, che verranno poi sviluppate nella trilogia berlinese di Bowie (
Heroes–
Low–
Lodger), prodotta da Brian Eno con la collaborazione di
Robert Fripp, e in
Exposure (1977), primo album solista dello stesso Fripp. Del resto, questa linea interpretativa era stata già sviscerata da
Tod Haynes nel suo magistrale
Velvet Goldmine (1998), in cui un immaginario Bowie suicida il sé stesso più artistico e glam, rinascendo come minaccioso idolo pop, con il capello platinato e una spaventosa attitudine al culto della personalità.
Ciò che forse è sempre sfuggito dell’atteggiamento di gruppi come i Duran Duran, gli
Spandau Ballet o gli
Wham! è la loro fondamentale valenza
politica. La critica si è sempre concentrata, infatti, con disprezzo e sufficienza, sul loro presunto “disimpegno” musicale e ideologico, mentre proprio l’allegria apparentemente scanzonata e irritante è una spia della disperazione che giace sul fondo di un malessere ormai pienamente postmoderno.
Dietro i ritmi orecchiabili e i suoni voluttuosi (in molti casi memori, vale la pena di dirlo, della tradizione
progressive), tutte queste “canzonette”, infatti, parlano della condizione del fantasma, della paura di svanire (
New Order,
Vanishing Point, 1989) e di una realtà ormai completamente superficiale e plastificata, in cui anche le emozioni sono confezionate e standardizzate. Anticipando così la
nostra condizione, ben più da incubo.