Archeologia e Democrazia

di - 10 Novembre 2018
Recentemente, l’Associazione Nazionale Archeologi ha formulato una serie di riflessioni rivolte al Governo per la tutela della professione archeologica. Nulla da eccepire se non che tali richieste assumano, in alcuni aspetti, tinte spiccatamente stataliste e anti-economiche al punto da indurre il dubbio che tali esternazioni, più che costituire le basi di un confronto strategico con l’attuale esecutivo, siano in realtà semplicemente un’attività volta a raccogliere consensi presso gli associati.
Fuor di retorica, l’Associazione Nazionale Archeologi afferma la sussistenza di un problema di “sfasatura tra la formazione e la professione”. Tale “sfasatura”, quindi, andrebbe coperta attraverso una serie di interventi da parte della Pubblica Amministrazione che vadano, in primo luogo, a ridurre l’emersione dei “volontari”, e dall’altro vadano ad integrare il “fabbisogno di risorse attraverso assunzioni presso il Ministero”.
In altri termini, le prime ricette che l’ANA propone sono quelle di prevedere che chiunque lavori su uno scavo sia un archeologo professionista, e che il Ministero si occupi di assumere ulteriori archeologi.
Ulteriore auspicio è quello di applicare la Convenzione di La Valletta del 1992, ratificata dall’Italia nel 2015 e che prevede che “per ogni intervento che impatta sul paesaggio e sul sottosuolo – sia pubblico che privato – siano inseriti i fondi per l’archeologia preventiva.
E ancora, l’ANA invita il governo a ripristinare il tariffario per le professioni più deboli.
C’è poi una riflessione relativa alle imprese che si occupano di scavi archeologici: “Queste imprese contribuiscono ad arricchire il nostro patrimonio e pagano l’Iva come chi costruisce un appartamento”.
Richieste che risulterebbero piuttosto onerose alla collettività, a ben vedere, e che sono il riflesso di una convinzione che è resa esplicita nell’ultima affermazione: l’archeologia vale più delle altre professioni.
È su questa assunzione (che sia condivisibile o meno, non rileva ai fini del ragionamento) che si legittima tutta la costruzione delle proposte avanzate ed è proprio questa assunzione a renderne debole la concreta implementazione.
Archeologi al lavoro
Prevedere che lo Stato debba essere responsabile di un “pareggio di bilancio” tra coloro che hanno deciso di iscriversi alle facoltà di archeologia e la domanda di lavoro in tale settore, anche retroattivamente, implica, in altri termini sostenere un piano di assunzioni mirate anche a scapito di altre professioni.
Tutto ciò è giustificabile soltanto se si accetta che la professione di archeologo vada tutelata, anche nei riguardi di potenziali “volontari” che, pur essendo sugli scavi impegnati in attività che non richiedono una conoscenza specialistica, vadano limitati, così che tutti gli operatori degli scavi siano archeologi.
Cosa significa questo, ad esempio, per un’impresa o altra organizzazione?
Significa l’assunzione, con un profilo contrattuale “congruo” e anzi, “stabilito per legge” (attraverso apposito tariffario), di archeologi anche per attività che potrebbero svolgere anche non archeologi.
Per un’impresa questo significa, in altri termini, una spesa in Risorse Umane non sempre commisurata all’effettiva necessità, e la prevedibile conseguenza della riduzione delle possibilità di assunzione.
Ma c’è il rimedio: l’impresa non dovrebbe pagare l’IVA come chi costruisce appartamenti. Anzi, per ogni appartamento di cui si debbano mettere le fondamenta lo Stato (o il privato) devono disporre di fondi specifici per l’archeologia preventiva.
Archeologi al lavoro
Il problema reale di questo approccio è che non crea le condizioni per un dialogo concreto con un Governo (qualunque Governo) che deve rispettare criteri di equità nell’allocazione delle risorse pubbliche.
Non si tratta di posizioni giuste o sbagliate, ma di corretto funzionamento del meccanismo democratico: quando un Governo propone una misura economica, deve farlo garantendo delle coperture con le quali tale misura possa essere sostenibile.
Questo è chiaro a tutti quando devono giudicarne l’operato e commentarne le scelte, eppure, quando devono avanzare delle proposte, non ne tengono conto.
Sarebbe giusto che questo criterio venisse applicato in primo luogo dalla società civile, soprattutto quando si parla di cultura.
Iniziando a considerare la concreta fattibilità delle richieste avanzate ai policy-makers si inizierebbe a fare delle scelte in termini di priorità e questo fornirebbe delle linee guida affidabili.
Altrimenti sono liste della spesa: esercizi retorici senza alcuna garanzia di fattibilità che nulla aggiungono e nulla tolgono al dibattito se non un inasprimento di posizioni ideologiche a dir poco anacronistiche.
Stefano Monti

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