È possibile che Buenos
Aires viva di una simile distorsione, o perlomeno questo è ciò che mantiene
buona parte dell’industria turistica locale. Pure la città che, come commentava
André Malraux al principio del secolo scorso, per il suo sfarzo era giunta a
mostrarsi come capitale di un impero inesistente, nel tempo e coi suoi rovesci
ha saputo sviluppare una sagacia e una resistenza più forti di ogni stereotipo,
che si danno nell’arte con rara vitalità. Aliena dal tango posticcio e dai suoi
souvenir, Buenos Aires è una scarica d’intelligenza continua che attraversa le
strade, s’insinua nella convivenza tra la ricchezza sfacciata dei quartieri di
Puerto Madero o Palermo Hollywood (sic!) e i cartoneros che attraversano la
notte rovistando tra i rifiuti, accende straordinarie esperienze di
autogestione – nel centro della capitale uno dei principali alberghi, l’Hotel
Bauen, funziona da quasi dieci anni diretto dai propri lavoratori, ospitando al
contempo esposizioni, spettacoli teatrali, laboratori di cinema – e chiacchiere
da bar o negozio, dalle quali capita non di rado di arrivare a scoperte
sorprendenti.
Va da sé che, in una città
di 13 milioni di abitanti, ogni incontro del genere risulta risolutamente
soggettivo, ma del resto da qualche parte si deve pur cominciare. Valga dunque
il suggerimento di Jorge, proprietario del Rufián Melancónico, un’arruffata
libreria antiquaria nel vecchio quartiere di San Telmo, a conoscere
l’immaginario peronista di Daniel Santoro. Ora, chiunque abbia una minima dimestichezza con il diorama argentino
sa bene che comprendere appieno e tanto meno dare conto di un fenomeno
complesso come il peronismo risulta praticamente impossibile. Pure la
proliferante opera di questo gioviale artista 60enne – soprattutto pittore, ma
anche scenografo del Teatro Colón, ideatore di collettivi d’arte concettuale
come La Estrella del Oriente o, ancora, motore di esperienze cinematografiche
indipendenti – attesta una qualità politica dell’arte che, se da un lato per la
propria ossessione verso l’approfondimento e la verifica della storia nazionale
si mostra tipicamente argentina, dall’altro propone l’inedita possibilità che
sia proprio il discorso artistico a meglio funzionare dove il pensiero
razionale fallisca. Nel caso di Santoro si tratta della creazione di un intero,
debordante immaginario: meglio, una mitologia che combina storia e cronaca a
ideologia e critica, utilizzando con innegabile intelligenza i mezzi di
un’iconografia figurativa primonovecentesca opportunamente virata ai toni di
un’ironia dalle aspirazioni epiche.
Si tratta di
un’intelligenza condivisa da una tradizione tanto importante quanto perdurante
di arte politica sudamericana in generale e argentina in particolare, la quale
dalla pittura sociale di Antonio Berni è progressivamente transitata per i provocatori happening e ready made di Marta Minujin o gli interventi oggettuali di Guillermo Kuitca fino alle ultime leve artistiche, intente a irridenti
decostruzioni dei dispositivi di potere più diffusi (ritorneremo su alcuni di
loro). Tutto ciò, sia chiaro, al netto di più definite operazioni iconologiche
di marca politica, anch’esse fortemente persistenti nel contesto
iberoamericano, esemplificate nell’opera di uno dei grandi vecchi dell’arte
argentina, León Ferrari, storico
artista di protesta impostosi negli anni ‘60 per un Cristo crocifisso su un
aereo da combattimento e, di recente, vincitore del Leone d’Oro alla Biennale
di Venezia (per chi, nel caso, si trovasse a transitare a queste latitudini,
tutti gli artisti appena citati sono studiabili nelle collezioni polverose ma
assai ben curate del Museo Nacional de Bellas Artes, nel quartiere della
Recoleta, a poca distanza dall’iperattivo Centro Cultural Recoleta, forse
l’osservatorio istituzionale migliore per accostarsi al vibrante scenario
dell’arte in città).
Si accennava all’ironia di
Santoro, ma essa pare più propriamente tipica di gran parte dell’arte argentina
e soprattutto distintiva delle generazioni più giovani, per quanto con gradi e
finalità diverse. Di nuovo, l’elencazione risulta necessariamente parziale, ma
vale la pena dare qui conto della ricerca che da tempo Jorge Macchi va svolgendo intorno a quella zona grigia che è il
rapporto tra immagini, vissuto individuale e immaginario collettivo. Tra i più
riconosciuti componenti della nebulosa internazionale del post-concettuale –
salve ulteriori ancor più improbabili determinazioni, del genere
“concettualismo sensibile” – Macchi sa ottenere, con una studiata economia di
mezzi, effetti di grande impatto suggestivo: la cronica eventual (dal titolo di una sua recente mostra presso la
storica Galleria Ruth Benzacar) dell’affondamento fotografico di una diffusa
confezione di fiammiferi argentina risulta in tal senso esemplare, rimandando
d’immediato alle più recenti (e per nulla eventuali) cronache economiche del
paese.
Un’attitudine similare,
quanto meno nella capacità di riflettere sulla situazione attuale, détournando
la carica politica più tradizionale del discorso artistico argentino, può
riscontrarsi anche in artiste come Alejandra Tavolini o Leticia El Halli Obeid. Della prima merita citare almeno la giocosa serie di
peluche di squali e mucche messi in formalina à la Hirst,
dove la manomissione degli stereotipi visivi più usati dell’art system globale
si risolve con salutare buon umore. Della seconda si segnala invece un recente
video che, nella ritrascrizione a mano, lungo un viaggio in treno per la
periferia disastrata di Buenos Aires, della Carta de Jamaica – uno degli scritti più noti di Simón Bolivar – produce un contundente
cortocircuito tra gli ideali rivoluzionari del passato e la durezza del
presente.
Forse è stata proprio la
crisi che, prima di risultare più semplicemente pandemica, ha affondato il
paese nei primi anni Duemila, ad aver prodotto e scatenato le energie delle
nuove generazioni che tanto colpiscono nell’incontro con la realtà culturale
argentina: qui, infatti, una quantità straordinaria di attività editoriali,
espositive e organizzative nasce ogni giorno con sconcertante naturalezza e
sprezzo sovrano della mancanza di mezzi. La freschezza dell’arte si apprezza in
un circuito di gallerie estremamente ampio e composito che, ogni maggio, trova
la sua massima celebrazione commerciale nella fiera annuale ArteBA, la
principale del Sudamerica, ma soprattutto nel circuito underground della città,
brulicante di spazi effimeri, riadattati, sempre sorprendenti.
Le librerie, in tale contesto,
svolgono un ruolo fondamentale, il che spiega pure perché la pratica del libro
d’artista, assolutamente low cost e spesso sulla soglia della fanzine, sia
tanto diffusa da queste parti (nel caso, per chi sia interessato all’argomento,
si consiglia una visita a La Libre, multiforme libreria-galleria nel quartiere
di San Telmo). In tale pratica, così come nell’uso disinvolto ma sicuro di
numerose altre – dal video al disegno all’installazione – una menzione speciale
merita il giovane e onnipresente Lino Divas, il cui tratto felicemente ironico sa cogliere con
agilità le derive immaginali della società attuale (non solo argentina) per
trascenderle in un caleidoscopio divertito e delicato che si dissemina in
mostre, volantini, interventi su giornali, happening lungo piste ciclabili,
sotto un cavalcavia o dentro appartamenti riadattati a galleria per una notte,
e la cui generosità rappresenta più di ogni altro il sentimento che si trae da
un’esperienza diretta con la gran città di Buenos Aires.
La
Boca della contemporaneità
luca arnaudo
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 67. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
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