BEIRUT. UNA QUESTIONE PRIVATA

di - 25 Novembre 2008
Beirut è città vivacissima, al limite dell’euforia. È capace di trasmettere la propria energia anche al più compassato dei visitatori, che potrà esprimere riserve quanto al grado di bellezza attuale di una città già bellissima, ma difficilmente riuscirà a sottrarsi al suo fascino decadente. La leggenda vuole che sia stata distrutta e ricostruita sette volte, ma il calcolo non tiene conto delle ultime due ricostruzioni: quella degli anni ’90, che ha voluto restituire forma allo spirito dei luoghi; e quella recentissima, seguita alla feroce rappresaglia israeliana del 2006, che sta tentando almeno di ripristinare le infrastrutture essenziali.
Aprendo gli ultimi numeri dell’Agenda Culturel, la guida agli appuntamenti culturali in città, si rimane sconcertati: qualche retrospettiva dal colore paesano, un paio di mostre fotografiche dal sapore estivo o dai toni troppo leccati, collettive studentesche e monografiche di evasione. Troppo poco davvero per un centro che si è sempre imposto alla guida delle tendenze artistico-letterarie in Medio Oriente. Certo l’ultima guerra ha notevolmente incrinato il rapporto fra gli uomini e la città: innanzitutto perché un numero crescente di giovani l’ha fisicamente lasciata. Il legame rimane stretto, quasi viscerale, ma la scelta di vivere altrove da temporanea si fa definitiva, magari in una forma di part-time che solo gli impegni lavorativi dei cosmopoliti libanesi riescono a giustificare, quanto meno socialmente. Possono tornare a Beirut per presentarvi il loro nuovo lavoro, che ha sempre o quasi per oggetto l’amata-odiata patria e spesso la guerra o la sua memoria, il suo fantasma e la sua aderenza al dibattito quotidiano.

È quello che fa, ad esempio, Walid Raad, che ha presentato alla galleria Sfeir-Semler la prima parte della sua ricerca sulla storia dell’arte araba moderna e contemporanea. Un progetto ambizioso, che partendo dalla constatazione del crescente interesse che il mondo arabo riserva alle arti figurative e, seppur meno palesemente, a quelle performative, cerca di esaminare ed eventualmente stabilire, alla stregua dei testi di Jalal Toufic (scrittore, cineasta e videoartista libanese dai toni spiccatamente polemici nei confronti dell’establishement) se e in quale misura la cultura e la tradizione nel mondo arabo siano state influenzate dalle numerose guerre qui succedutesi e spesso scatenate da interessi profondamente estranei a quelli locali. La mostra, che finalmente riporta interesse in città, è la prima personale non solo in Libano ma in tutto il Medio Oriente di Raad, già noto al pubblico internazionale per il connubio con The Atlas Group.
L’artista sviluppa gli orizzonti dell’indagine iniziata nel ‘89 circa il ruolo della violenza e del documento nell’arte. Se con The Atlas Group l’indagine era esclusivamente concentrata su eventi ed episodi – reali come fittizi – legati alle guerre che avevano sconvolto il paese per un trentennio, con questo nuovo progetto, Raad si interroga sulle nozioni di moderno e contemporaneo nell’arte araba e sulle possibilità di incidenza degli atti creativi sulla percezione, la ricezione e la riflessione che hanno per oggetto la violenza e le sue aderenze alla dimensione quotidiana del vissuto. Si tratta indubbiamente di una ricerca vastissima, che trova minima rispondenza nella realtà locale, calata come è dall’esterno e, se non proprio indesiderata, ampiamente scoraggiata da un disamoramento collettivo incline a preferire i divertissement offerti dai festival estivi internazionali (Baalbek, Beiteddine e Byblos, un po’ raffazzonati, per la verità) a qualsivoglia dissotterramento dell’argomento guerra.

Ma la guerra è presenza latente, quasi una clausola contrattuale in una polizza anti-infortuni. Sandra Dagher, co-curatrice con Saleh Barakat del padiglione Libano alla Biennale di Venezia 2007, racconta dei suoi progetti e delle sue disillusioni. Lei, nata in Libano ma cresciuta a Parigi, poi tornata a Beirut alla metà degli anni ’90, ha diretto e gestito per un decennio l’Espace SD, una galleria, libreria, laboratorio artistico fra i più vivaci in città, chiuso due anni fa. La coincidenza con la guerra dei trentatre giorni si rivela essere quello che è: una mera coincidenza, visto che Sandra aveva “deciso di chiudere l’Espace alla fine del 2006: avevo in programma ancora alcune mostre, poi la guerra è scoppiata, cogliendoci tutti alla sprovvista. Io mi trovavo a Parigi in quei giorni e non sono potuta rientrare fino a quando la situazione si è normalizzata. Quasi tutti hanno attribuito la chiusura della mia galleria alla guerra, ma non è così”. Eppure ammette di aver pensato di andarsene per sempre anche lei, come tanti altri. Poi la proposta di curare il Padiglione Libano, ma soprattutto il sodalizio con Lamia Joreige – artista attivissima e di grande livello, impegnata in un minuzioso lavoro sulla memoria – e il progetto di fondare un Centro (pubblico?!) per le Arti a Beirut hanno prevalso.
L’Arts Centre dovrebbe essere inaugurato alla fine di quest’anno, con un programma di mostre riservate ad artisti affermati ma non “commerciabili”, libanesi e arabi; alcuni progetti di scambi con fondazioni dei paesi arabi e del Golfo, e un occhio incoraggiante rivolto ai giovani. Certo non sarà facile, vista la totale mancanza di supporto istituzionale, ma gli sponsor privati hanno risposto ancora una volta all’appello, garantendo i mezzi per avviare il Centro e realizzare il primo ciclo di progetti.
Intanto alcuni fra gli artisti più corteggiati della scena libanese (Fouad Elkoury, Joana Hadjithomas & Khalil Joreige) sono in mostra a Dubai, presso la galleria The Third Line: Roads were open, roads were closed si riferisce alle difficoltà quotidiane, a quel bollettino di guerra che si fa tam-tam e che innerva il corpo sociale in momenti estremi. Anche l’elegante e distaccato Barakat tiene d’occhio altri orizzonti, come tutti in Libano, dove l’orgoglio nazionale è inscritto nei cromosomi ma dove tutti hanno, o cercano disperatamente di acquisire, il passaporto europeo o quello americano. Perennemente in bilico fra un qui e un altrove che risultano spesso intercambiabili, artisti e attori del panorama culturale libanese non fanno eccezione alla regola: apparire, distinguersi, “esiliarsi”. Un vero esercizio di equilibrismo, una danza sul filo che tiene col fiato sospeso gli osservatori: una marcia nel vuoto in cui il rischio della caduta incombe, bilanciato da un’incrollabile fiducia nel raggiungimento della meta.
A proposito di vuoto e di sospensione, peccato che proprio Dubai, e non Beirut, sia la città prescelta da Nadim Karam per proporre la sua ultima trovata architettonica. Architetto e artista libanese, Karam firma con l’Atelier Hapsitus The Cloud, uno spettacolare progetto che viene a creare uno spazio elevato (a trecento metri sul livello della città!) destinato ad accogliere un lago, dei giardini, un auditorium, una piattaforma per gli sport invernali, il tutto appoggiato su altissimi ed esilissimi pilastri che intendono riproporre la suggestione di una pioggia fitta e battente. Karam retorizza: “Nell’ambito di uno scenario in continuo e rapidissimo cambiamento, Dubai necessita di un sogno in grado di esprimere la sua attuale fase di trasformazione. Ammesso che le città possano sognare, Dubai ha un sogno?”. E Beirut? Non meritava forse un sogno, Beirut?
Di questa opinione sembra senz’altro Mai Masri, che alla città ha dedicato due dei suoi più recenti lavori: Beirut Diaries. Truth, Lies and Videos (2006) e 33 days (2007). Il primo, pluripremiato film è dedicato alla protesta popolare che ha portato in piazza per mesi libanesi di ogni età, stanchi di subire la storia imposta dall’alto. Il secondo documentario affianca il quotidiano di alcuni semplici cittadini alle prese con l’aggressione israeliana del 2006 e ne fa eroi di una resistenza disarmata, testimoni oculari di una tragedia ripetuta e annunciata. Sembra davvero una relazione inestricabile, quella fra arte e guerra, qui a Beirut, quasi si trattasse dei due poli di un dialogo permanente e solipsistico, i cui effetti risultano amplificati, echeggiati, pluralizzati dal vuoto semiliquido dell’attesa.

Del resto basta osservare la città, i suoi edifici appena fuori dal centro storico, per percepire il peso di un confronto con il recente passato bellico, confronto che da personale si fa collettivo per poi tornare a essere quello che di fatto è: una questione privata, vista l’incapacità delle istituzioni a veicolare chiavi di lettura e possibili soluzioni “terapeutiche”. È il ruolo che molti artisti si sono addossati, come rabdomanti in cerca di acqua: compito arduo, che ripropone come uno schiaffo la dibattuta questione dell’impegno in arte.

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L’arte durante la guerra: Beirut 2006

cristiana de marchi

*foto in alto: uno scatto di Gabriele Basilico del 1994


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 53. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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