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10
giugno 2010
BOOMBAY
Politica e opinioni
di maria teresa capacchione
Nella megalopoli asiatica sta succedendo ciò che forse la stragrande maggioranza dell’Occidente non sa. Con gallerie che diventano musei, con distretti artistici che si formano e con un collezionismo che acquisisce consapevolezza. In un paese che si avvia ad avere centinaia di milioni di ricchi...
Nella megalopoli asiatica sta succedendo ciò che forse la stragrande maggioranza dell’Occidente non sa. Con gallerie che diventano musei, con distretti artistici che si formano e con un collezionismo che acquisisce consapevolezza. In un paese che si avvia ad avere centinaia di milioni di ricchi...
Camminare per Bombay (o Mumbai) è
un’esperienza unica. Nel bene e nel male, ma comunque unica. È un po’ sentirsi
nello stesso tempo Alice che vaga nel Paese delle Meraviglie e Dante che viene
traghettato all’Inferno. In poche decine di metri, passeggiando in una strada
centralissima magari davanti al maestoso Taj Mahal (l’hotel, s’intende), si può
avere la sensazione di muoversi dentro il set de Il nome della Rosa come in quello del Quinto elemento: da scene d’incredibile miseria
si passa a scorci di grande modernità, tutto in un solo colpo d’occhio.
Lo stesso può accadere per le
gallerie d’arte contemporanea: ne cerchi una, con mille difficoltà il tassista
riesce (forse) a portarti all’indirizzo complicato che gli hai dato e, quando
ti butta fuori dall’auto, pensi che no, ci dev’essere un errore, non può essere
qui lo spazio che cercavi. Strada dissestata, palazzina fatiscente, scale
pericolanti, ma poi arrivi davanti a una porta imponente, la apri e lo scenario
cambia radicalmente: Bombay possiede gallerie tra le più sofisticate e
suggestive che ci possano essere al mondo.
Certo, parliamo di un manipolo di
spazi in una megalopoli di 20 milioni d’abitanti (l’area metropolitana è una
delle più popolose della Terra), ma far parlare solo i numeri non rende
giustizia alla complessità di “maximum city”, per dirla con Suketu Mehta.
Del resto, basterà considerare che
agli inizi degli Anni Zero le gallerie erano assai meno della metà di quelle
che sono oggi e che, solo negli ultimi mesi, ben quattro sono state le nuove
aperture. Questo, seppur letto in filigrana con la consapevolezza che siamo in
India e non a New York, Londra o Berlino, dà un’idea dei ritmi ai quali sta
crescendo Mumbai: spinta da un’inarrestabile crescita economica che, a partire
dal 1991 – l’anno delle liberalizzazioni -, l’ha incoronata come capitale
assoluta degli affari nel Subcontinente. Qualche numero? Bombay genera il 5%
del Pil del paese, il 25% della produzione industriale, il 40% del commercio
marittimo e il 70% delle transazioni di capitali dell’economia indiana. Per non
parlare del giro d’affari che produce l’industria cinematografica di Bollywood:
qualcosa che non si discosta troppo dai 2 miliardi di euro l’anno.
L’urbanistica e l’edilizia non
sono state da meno in questi anni: il boom, qui, è partito negli anni ‘70 e
negli ultimi dieci anni Bombay ha cambiato completamente volto. Sebbene sia
sempre stata una città di grandi fermenti, oggi questa vivacità è tangibile più
che mai.
Le ragioni dei cambiamenti e delle
forti accelerazioni subite dal mondo dell’arte in città vanno però cercate
anche e soprattutto al di fuori del boom economico. Le motivazioni sono,
insomma, da ricercarsi anche alla voce “politica” e a quella “cultura”. Shireen
Gandhy, una dei più autorevoli protagonisti della scena artistica cittadina,
proprietaria della galleria Chemould Prescott Road inaugurata nel 2007 – evoluzione
di una delle gallerie storiche dell’India, la Gallery Chemould, creata dai suoi genitori nel ‘63 –
racconta come abbia influito sulla scena artistica indiana in generale e su
quella cittadina in particolare la demolizione della Moschea di Babri ad
Ayodhya nel ’92. “A seguito dell’episodio scaturirono disordini in cui
persero la vita oltre 2mila persone (per la maggior parte musulmane). Fu un
evento così dirompente per la sua violenza da entrare prepotentemente nella
ricerca degli artisti, tanto da costringerli a ripensare il loro modo di
esprimersi, spingendoli a cercare mezzi e forme più forti, più adeguate al
linguaggio della vita contemporanea”. Una sorta di 11 settembre indiano. Ecco lo spartiacque
a partire dal quale i creativi locali hanno iniziato a usare i nuovi media, ad
aprirsi alla fotografia, al video, alle installazioni.
In questa sorta di percorso di
genesi del contemporaneo in India occorre poi far tappa nel biennio 2004-2005:
sono gli anni che hanno segnato il vero “sorpasso” dell’arte contemporanea
rispetto al modernismo, che proprio a Bombay era ben rappresentato dal Progressive
Artists Group, fondato
nel 1947 da una serie di artisti indiani vogliosi di aprirsi verso l’esterno e
di reagire ai revival nazionalistici dell’epoca. Dunque, la megalopoli indiana
non poteva che essere l’epicentro di questo cambiamento.
Un altro cambiamento che ha
rafforzato l’arte contemporanea a Mumbai – elemento peraltro che la differenzia
da New Delhi – è stata la creazione spontanea di un distretto del contemporaneo
in una zona piuttosto circoscritta a sud della città. Per una megalopoli con
enormi problemi di traffico e circolazione, è stata una necessità e ha segnato
una svolta. Così, negli ultimi anni le gallerie si sono concentrate tra le aree
di Colaba e Fort e si sono reciprocamente rafforzate facendo sistema. Un altro
elemento caratteristico della città è che la nascita di nuovi spazi viene
vissuta dai galleristi non con l’ansia della competizione, ma – è Shalini Sawhney, proprietaria della Guild
Art Gallery, a dircelo – come “un’opportunità
per far crescere il collezionismo”. Del resto, in una città quasi del tutto priva di musei
e istituzioni pubbliche dedicate all’arte (specie contemporanea), il ruolo
delle gallerie è anche quello di supplire a questo vuoto, assolvendo anche al
compito di musei e luoghi d’incontro. Sempre di più, infatti, agli opening si
susseguono le lecture, un’occasione per far incontrare artisti, pubblico,
collezionisti, critici e per trovare una scusa per discutere d’arte. Come
sostiene Arshiya Lokhandwala – proprietaria della galleria Lakeeren che, dopo sei anni di chiusura,
ha riaperto il suo spazio nel 2009, spostandolo dalla zona nord al nuovo
distretto – “a Bombay è fondamentale il ruolo sociale delle gallerie per
supportare e sostenere il lavoro degli artisti”.
I nuovi spazi infatti nascono
anche logisticamente preparati a questo: è il caso della giovanissima Volte (nata a settembre 2009), che
occupa un bellissimo loft nello stesso edificio della Guild ed è dotata di una caffetteria per
consentire incontri e dibattiti; oppure della BMB che, oltre al bar interno, ha
realizzato un bookshop dedicato ai convegni.
Tra le nuove gallerie c’è quella
appena inaugurata dal francese Matthieu Foss (Matthieu Foss Gallery), che si è trasferito già nel
2005 a Bombay per aprire uno spazio dedicato esclusivamente alla fotografia.
Matthieu ha vissuto in prima persona la metamorfosi del panorama artistico
della città nell’ultimo lustro: “Quando sono arrivato a Bombay, i fotografi
erano pochissimi e la mia era considerata una posizione di nicchia. Oggi sono
molte le gallerie che espongono anche fotografia e si è creata una diffusa
sensibilità anche tra i giovani”. A Bombay c’è indubbiamente, in effetti, una nutrita
schiera di giovani collezionisti che segue attivamente la scena artistica della
città e ha dato nuovo impulso all’arte contemporanea.
Anche seguire l’evoluzione che ha
subito nel corso degli anni la programmazione delle gallerie è interessante ed
è un segno del cambiamento in atto: se fino a tre anni fa era davvero raro per
un artista non indiano trovare spazio per esporre a Bombay, oggi sono molte le
gallerie che alternano mostre di artisti nazionali con proposte da paesi
limitrofi – per intuibili ragioni è molto seguita, ad esempio, la scena
artistica pakistana – e dall’Occidente. Sebbene i collezionisti indiani siano orgogliosi
di supportare i propri artisti, alcune gallerie – come la sofisticata Sakshi e l’affascinante Gallery
Maskara, ricavata
all’interno di un ex magazzino del cotone nell’area più popolare di Colaba –
incentivano particolarmente il confronto e lo scambio a livello internazionale.
Qualche anno fa quest’aspetto – come molti altri che abbiamo affrontato –
sarebbe stato impensabile.
un’esperienza unica. Nel bene e nel male, ma comunque unica. È un po’ sentirsi
nello stesso tempo Alice che vaga nel Paese delle Meraviglie e Dante che viene
traghettato all’Inferno. In poche decine di metri, passeggiando in una strada
centralissima magari davanti al maestoso Taj Mahal (l’hotel, s’intende), si può
avere la sensazione di muoversi dentro il set de Il nome della Rosa come in quello del Quinto elemento: da scene d’incredibile miseria
si passa a scorci di grande modernità, tutto in un solo colpo d’occhio.
Lo stesso può accadere per le
gallerie d’arte contemporanea: ne cerchi una, con mille difficoltà il tassista
riesce (forse) a portarti all’indirizzo complicato che gli hai dato e, quando
ti butta fuori dall’auto, pensi che no, ci dev’essere un errore, non può essere
qui lo spazio che cercavi. Strada dissestata, palazzina fatiscente, scale
pericolanti, ma poi arrivi davanti a una porta imponente, la apri e lo scenario
cambia radicalmente: Bombay possiede gallerie tra le più sofisticate e
suggestive che ci possano essere al mondo.
Certo, parliamo di un manipolo di
spazi in una megalopoli di 20 milioni d’abitanti (l’area metropolitana è una
delle più popolose della Terra), ma far parlare solo i numeri non rende
giustizia alla complessità di “maximum city”, per dirla con Suketu Mehta.
Del resto, basterà considerare che
agli inizi degli Anni Zero le gallerie erano assai meno della metà di quelle
che sono oggi e che, solo negli ultimi mesi, ben quattro sono state le nuove
aperture. Questo, seppur letto in filigrana con la consapevolezza che siamo in
India e non a New York, Londra o Berlino, dà un’idea dei ritmi ai quali sta
crescendo Mumbai: spinta da un’inarrestabile crescita economica che, a partire
dal 1991 – l’anno delle liberalizzazioni -, l’ha incoronata come capitale
assoluta degli affari nel Subcontinente. Qualche numero? Bombay genera il 5%
del Pil del paese, il 25% della produzione industriale, il 40% del commercio
marittimo e il 70% delle transazioni di capitali dell’economia indiana. Per non
parlare del giro d’affari che produce l’industria cinematografica di Bollywood:
qualcosa che non si discosta troppo dai 2 miliardi di euro l’anno.
L’urbanistica e l’edilizia non
sono state da meno in questi anni: il boom, qui, è partito negli anni ‘70 e
negli ultimi dieci anni Bombay ha cambiato completamente volto. Sebbene sia
sempre stata una città di grandi fermenti, oggi questa vivacità è tangibile più
che mai.
Le ragioni dei cambiamenti e delle
forti accelerazioni subite dal mondo dell’arte in città vanno però cercate
anche e soprattutto al di fuori del boom economico. Le motivazioni sono,
insomma, da ricercarsi anche alla voce “politica” e a quella “cultura”. Shireen
Gandhy, una dei più autorevoli protagonisti della scena artistica cittadina,
proprietaria della galleria Chemould Prescott Road inaugurata nel 2007 – evoluzione
di una delle gallerie storiche dell’India, la Gallery Chemould, creata dai suoi genitori nel ‘63 –
racconta come abbia influito sulla scena artistica indiana in generale e su
quella cittadina in particolare la demolizione della Moschea di Babri ad
Ayodhya nel ’92. “A seguito dell’episodio scaturirono disordini in cui
persero la vita oltre 2mila persone (per la maggior parte musulmane). Fu un
evento così dirompente per la sua violenza da entrare prepotentemente nella
ricerca degli artisti, tanto da costringerli a ripensare il loro modo di
esprimersi, spingendoli a cercare mezzi e forme più forti, più adeguate al
linguaggio della vita contemporanea”. Una sorta di 11 settembre indiano. Ecco lo spartiacque
a partire dal quale i creativi locali hanno iniziato a usare i nuovi media, ad
aprirsi alla fotografia, al video, alle installazioni.
In questa sorta di percorso di
genesi del contemporaneo in India occorre poi far tappa nel biennio 2004-2005:
sono gli anni che hanno segnato il vero “sorpasso” dell’arte contemporanea
rispetto al modernismo, che proprio a Bombay era ben rappresentato dal Progressive
Artists Group, fondato
nel 1947 da una serie di artisti indiani vogliosi di aprirsi verso l’esterno e
di reagire ai revival nazionalistici dell’epoca. Dunque, la megalopoli indiana
non poteva che essere l’epicentro di questo cambiamento.
Un altro cambiamento che ha
rafforzato l’arte contemporanea a Mumbai – elemento peraltro che la differenzia
da New Delhi – è stata la creazione spontanea di un distretto del contemporaneo
in una zona piuttosto circoscritta a sud della città. Per una megalopoli con
enormi problemi di traffico e circolazione, è stata una necessità e ha segnato
una svolta. Così, negli ultimi anni le gallerie si sono concentrate tra le aree
di Colaba e Fort e si sono reciprocamente rafforzate facendo sistema. Un altro
elemento caratteristico della città è che la nascita di nuovi spazi viene
vissuta dai galleristi non con l’ansia della competizione, ma – è Shalini Sawhney, proprietaria della Guild
Art Gallery, a dircelo – come “un’opportunità
per far crescere il collezionismo”. Del resto, in una città quasi del tutto priva di musei
e istituzioni pubbliche dedicate all’arte (specie contemporanea), il ruolo
delle gallerie è anche quello di supplire a questo vuoto, assolvendo anche al
compito di musei e luoghi d’incontro. Sempre di più, infatti, agli opening si
susseguono le lecture, un’occasione per far incontrare artisti, pubblico,
collezionisti, critici e per trovare una scusa per discutere d’arte. Come
sostiene Arshiya Lokhandwala – proprietaria della galleria Lakeeren che, dopo sei anni di chiusura,
ha riaperto il suo spazio nel 2009, spostandolo dalla zona nord al nuovo
distretto – “a Bombay è fondamentale il ruolo sociale delle gallerie per
supportare e sostenere il lavoro degli artisti”.
I nuovi spazi infatti nascono
anche logisticamente preparati a questo: è il caso della giovanissima Volte (nata a settembre 2009), che
occupa un bellissimo loft nello stesso edificio della Guild ed è dotata di una caffetteria per
consentire incontri e dibattiti; oppure della BMB che, oltre al bar interno, ha
realizzato un bookshop dedicato ai convegni.
Tra le nuove gallerie c’è quella
appena inaugurata dal francese Matthieu Foss (Matthieu Foss Gallery), che si è trasferito già nel
2005 a Bombay per aprire uno spazio dedicato esclusivamente alla fotografia.
Matthieu ha vissuto in prima persona la metamorfosi del panorama artistico
della città nell’ultimo lustro: “Quando sono arrivato a Bombay, i fotografi
erano pochissimi e la mia era considerata una posizione di nicchia. Oggi sono
molte le gallerie che espongono anche fotografia e si è creata una diffusa
sensibilità anche tra i giovani”. A Bombay c’è indubbiamente, in effetti, una nutrita
schiera di giovani collezionisti che segue attivamente la scena artistica della
città e ha dato nuovo impulso all’arte contemporanea.
Anche seguire l’evoluzione che ha
subito nel corso degli anni la programmazione delle gallerie è interessante ed
è un segno del cambiamento in atto: se fino a tre anni fa era davvero raro per
un artista non indiano trovare spazio per esporre a Bombay, oggi sono molte le
gallerie che alternano mostre di artisti nazionali con proposte da paesi
limitrofi – per intuibili ragioni è molto seguita, ad esempio, la scena
artistica pakistana – e dall’Occidente. Sebbene i collezionisti indiani siano orgogliosi
di supportare i propri artisti, alcune gallerie – come la sofisticata Sakshi e l’affascinante Gallery
Maskara, ricavata
all’interno di un ex magazzino del cotone nell’area più popolare di Colaba –
incentivano particolarmente il confronto e lo scambio a livello internazionale.
Qualche anno fa quest’aspetto – come molti altri che abbiamo affrontato –
sarebbe stato impensabile.
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