Forse Alessandro Baricco prenderà il suo posto. Forse Massimo Bray, neanche uno dei peggiori ministri della cultura che abbiamo avuto (imperdibili i suoi blitz in bici alla Reggia di Caserta e dintorni), tra qualche giorno (?), qualche ora (?) non siederà più sullo scranno più alto di via del Collegio Romano, ma sulla sua riforma, dettata dalla spending review e con cui intende ridescrivere organi e funzionamento del Ministero dei Beni Culturali, non pare voler mollare. Nel tardo pomeriggio di ieri è arrivato un secco comunicato in cui si afferma che «anche a seguito delle modifiche apportate al Senato alla disciplina della riorganizzazione dei ministeri prevista nel decreto “Milleproroghe” e al fine di approfondire le proposte emerse nei confronti della riorganizzazione del Ministero, comprese quelle rappresentate dai presidenti delle Commissioni Cultura di Camera e Senato, è stato deciso di procedere subito al riassetto del Mibact chiesto dalla legge spending review nei termini già previsti, e di definire la riforma complessiva con il coinvolgimento del Parlamento, attraverso l’iter ordinario con decreto del Presidente della Repubblica».
Avanti tutta, insomma, per ora con i tagli. E poi il resto chissà, dovrà comunque passare attraverso le Commissioni Cultura di Camera e Senato. A meno che nel frattempo a stoppare Massimo Bray – impassibile, forse “zen” come il suo Primo Ministro – non sia un Letta bis (che lo sacrificherebbe forse perché dell’ala dalemiana non gradita a Renzi) o direttamente un nuovo ministro. Oggi pomeriggio, comunque, il capo di gabinetto del ministro ancora in carica, Marco Lipari, incontra i sindacati che lunedì gli hanno fatto arrivare i loro “niet”, per cui Lipari si è preso cinque giorni di tempo per ragionarci sopra.
Ma non sono solo in sindacati sul piede di guerra. La riforma Bray, con cui si accorpano Direzioni Generali (che diventano 9, mentre gli Uffici di livello generale passano da 29 a 24 e quelli di seconda fascia da 194 a 167, il tutto con dentro anche la delega per il Turismo), si è guadagnata una discreta valanga di critiche: «Si dà solo più potere ai burocrati», secondo Vittorio Emiliani. «Occasione perduta» per Maria Pia Guermandi e così via tirando al bersaglio della riforma e della Commissione dei saggi che Bray aveva istituito per redigerla.
Ma cos’è che non va, al di là dell’eccessiva «concentrazione di potere nelle mani del Segretario Generale (al momento l’architetta Antonio Pasqua Recchia n.d.r.) che invece andrebbe ridistribuito tra le Direzioni Generali e il fatto che la riforma non azzererebbe Società a partecipazione pubblica come Arcus», come afferma Stefano Innocentini, vicesegretario del sindacato Confsal-Unsa? Il peggio è che vengono cancellate (o comunque fortemente modificate) due Direzioni, entrambe molto importanti per motivi diversi, se non addirittura opposti. Viene soppressa la Direzione Generale per le Antichità, accorpata alla Direzione Belle Arti, il Paesaggio e l’Architettura per cui l’archeologia non avrebbe una evidenza specifica (in Italia? Sì, proprio in Italia) e l’arte e l’architettura contemporanee che già impropriamente avevano perso la propria Direzione nella riforma del 2009, andrebbero a far parte della Direzione dello Spettacolo dal vivo.
Per caso, secondo Bray, i resti archeologici sono pietre qualunque che fanno parte del paesaggio e gli architetti e gli artisti sono performer? Non è esattamente così. Il sospetto (più che fondato) per quanto riguarda il contemporaneo (sull’archeologia non si riesce nemmeno a fare un’ipotesi) è che si voglia accentrarne la filiera nelle mani di un’unica persona che risponde al nome di Salvatore Nastasi, già potente Capo di Gabinetto all’epoca di Bondi e Galan, che si era scaldato i muscoli passando indenne nelle grazie dei tre precedenti ministri: Giuliano Urbani, Rocco Bottiglione e Francesco Rutelli, secondo qualcuno; anzi, vero ministro della cultura specie quando a via del Collegio Romano sedeva il fido ma poco grintoso Bondi; genero di Gianni Minoli, che guarda caso, una volta imparentato con Nastasi, è diventato Presidente del Castello di Rivoli, con le conseguenze (certo non dipese solo da lui) che tutti conosciamo e la progressiva demolizione di un museo – per molti anni il più bello e autorevole museo d’arte contemporanea italiano – dove lui, al momento del suo insediamento confessò candidamente (tanto chissenefrega) che “erano anni che non ci metteva piede».
Dunque, non è solo il fatto che l’arte e l’architettura contemporanee non sono forme di “intrattenimento” (distinzione concettuale non da poco), ma c’è un problema politico: tutto quello che si muove in questo ambito verrebbe governato da un’unica persona, già molto potente. Che conseguenze ha tutto questo? Non solo di ordine politico, ma anche di ordine amministrativo e funzionale «Non c’è più un riconoscimento specifico dell’identità di questo settore e si taglia il legame che, specie l’architettura, ma anche l’arte, dovrebbero avere in modo molto forte ed evidente con la qualità e la cura del patrimonio storico-artistico e con il paesaggio. Il quale invece, resta accorpato alle Belle Arti e all’Architettura sotto una macro Direzione, decurtata però del settore del Contemporaneo», spiega l’architetto Maria Grazia Bellisario, Dirigente del Servizio Architettura e Arte Contemporanee. «Non sono contraria per principio a un ’integrazione più sistematica con altri ambiti della cultura contemporanea, uno di questi, oltre lo spettacolo, può considerarsi il cinema. E già abbiamo delle collaborazioni in atto con i colleghi dello Spettacolo, per esempio nel settore della danza e delle altre attività performative con programmi dedicati al sostegno e alla mobilità dei giovani artisti, come avviene per il progetto Movin’up. Ma con l’accorpamento non si riconoscono l’ambito disciplinare e di formazione universitaria specifici dell’ architettura e dell’arte, che non sono gli stessi dello spettacolo», continua Maria Grazia Bellisario.
Per non dare l’idea che si voglia difendere il proprio orto, dirigenti e sindacati in questi giorni si stanno dando da fare per far arrivare al ministro Bray le loro controproposte. «Abbiamo aperto un blog per discutere della Riforma e chiediamo che sia fatta anche attenzione a come vengono definiti i ruoli e distribuiti i dirigenti sul territorio: va ripensato bene il ruolo delle Soprintendenze rispetto alle Direzioni Regionali che, se accorpate tra più regioni, può voler dire conferire a un Sovrintendente un territorio sconfinato e difficilmente governabile», aggiunge Bellisario. Ma il punto più dolente è la perdita della specificità dell’arte e dell’architettura contemporanee, «faticosamente conquistate all’inizio del 2000 con l’istituzione della Darc (Direzione Arte e Architettura Contemporanee), migliorata in seguito con l’integrazione con il Paesaggio, da cui nacque la Parc che aveva mostrato un approccio integrato corretto e incisività d’azione. Cancellare questo passato e l’attuale presente significa anche mettere in secondo piano la qualità degli interventi sul paesaggio, che mostra evidenti connessioni con l’arte e l’architettura. Se il problema è la spending review, e quindi tagliare i costi e non ci sono nell’immediato risorse sufficienti per una riforma che dia respiro e visibilità a ciascun ambito disciplinare, meglio lasciare le specificità dell’arte e architettura contemporanee connesse al patrimonio storico-architettonico», conclude Bellisario.
Quindi, ci sono modi diversi per penalizzare il settore dei beni culturali, in particolare quello legato al contemporaneo. Semplicemente disconoscendolo. Un atteggiamento insensatamente autolesionista, se guardato dal punto di vista di quella che dovrebbe essere una normale, magari sana, amministrazione. Specie se si pensa che si tratta del settore più fragile per cui tanto si è fatto (e certo tanto si potrebbe fare di più) per farlo entrare nelle abitudini mentali, nella consuetudine del nostro Paese. E invece no, si elimina, si manda all’aria quello che è stato fatto, ingolfando ulteriormente la macchina burocratica. Per cosa, per centralizzare ancora di più i poteri?
Sembra di assistere al succedersi delle varie dinastie Ming e Qing, quelle che facevano terra bruciata di tutto quello che era stato fatto prima di loro. Solo che le varie Ming e Qing si disputavano un potere vero, un territorio sconfinato: la Cina. Qui, invece, in gioco ci sono briciole, uno dei ministeri più poveri, forse il più povero, che con la spending review si vorrebbe impoverire ulteriormente. All’epoca del suo insediamento, il primo ministro Letta disse: «ma più tagli alla cultura». Aveva fatto ben sperare. Forse è l’ora che vada a casa sul serio.