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28
febbraio 2008
C’ERA UNA VOLTA L’ARTISTA
Politica e opinioni
di santa nastro
Mentre tutte le linee di tendenza sono orientate all’imperativo del “fare sistema”, ciò che rischia di perdersi è l’individualità dell’artista. Rapido excursus dagli anni ‘60 a oggi. Attraverso modalità diverse di affrontare e di leggere la realtà...
Mentre tutte le linee di tendenza sono orientate all’imperativo del “fare sistema”, ciò che rischia di perdersi è l’individualità dell’artista. Rapido excursus dagli anni ‘60 a oggi. Attraverso modalità diverse di affrontare e di leggere la realtà...
di Santa Nastro
L’arte, dal dopoguerra in poi, ci ha abituato a una visione antropocentrica della creatività, in grado di registrare sui suoi strumenti linguistici nevrosi sociali ed introspettive. Correva l’anno 1968 quando Gastone Novelli spezzava sulle proprie ginocchia le tele dipinte con ardore, sul retro delle quali aveva tracciato il motto “La Biennale [di Venezia, n.d.r.] è Fascista”. Nei medesimi anni, i protagonisti della Minimal Art progettavano strutture entropiche a misura d’uomo, mentre gli attori dell’Arte Povera utilizzavano lo stesso calore, traendo dalla realtà stessa gli strumenti necessari per formulare la propria personalissima, seppur spesso metaforica ed evocativa, visione di essa, raffreddata mano a mano dalle variazioni sul tema degli innumerevoli, diligentissimi discendenti.
Per quanto concerne, infatti, l’arte dell’ultimo decennio, l’approccio alla realtà si è evoluto in un rapporto ambivalente. Da un lato si progettano forme di fuga, congetture utopiche di scenari paralleli e avveniristici, o di atmosfere surreali, quanto criptiche e inaccessibili: bastino per tutti le azioni di Tino Sehgal e dell’enfant prodige Nico Vascellari. L’atto di ribellione, tuttavia è perfettamente calibrato nella teatralità dell’azione, progettata con delicate sfumature glamour, più happening che performance. L’improvvisazione e la spontaneità non sono previste. Tutto deve procedere come da copione, in un mix anti-nevralgico di elementi debordiani, rigido humour del decennio scorso e congelamento patinato.
Dall’altro, l’artista sembra essere scollegato dagli avvenimenti contemporanei, distaccato com’è dalla Storia degli ultimi dieci anni circa. Questo fenomeno, che sembra cogliere maggiormente l’ultima generazione, ha effetti molto preoccupanti in una realtà così densa di accadimenti, dalla confusione generale della politica, alla carica seduttiva straordinaria delle primarie americane (colta in parte da Francesco Vezzoli), fino all’esasperazione della dimensione pubblica di fatti e misfatti comuni quanto privati su Youtube, solo per citare qualche esempio, nell’immensità di una Storia che nel 2007 non ha di certo risparmiato colpi di scena.
Eppure il sentimento che sembra aleggiare nella produzione delle nuove leve è quello di chi osserva da fuori -senza un’effettiva partecipazione-, di chi apre a caso un quotidiano o un manuale universitario e sceglie di dedicarsi a un’interpretazione leziosa e manieristica di un tema assegnato, utilizzando come regola formale la grammatica assorbita da ricerche precedenti e ormai istituzionalizzate. Valga per tutti l’apologia degli stili dell’ultimo Martin Creed.
Ciò che sembra mancare, senza voler dare giudizi di merito, è lo struggimento che caratterizzava, ad esempio, le tele di Mario Mafai, le bruciature di Alberto Burri, la secchezza distruttiva dei suoi Cretti, le lacerazioni di Lucio Fontana.
È come se l’artista contemporaneo stesse cercando di recuperare nuovamente il dialogo con la realtà, senza riuscire mai a compiere il passo successivo di calarsi completamente in essa. La condizione generale sembra essere, in fondo, quella di un sistema (quello dell’arte) così interessante nella sua attuale esplosione straordinaria, in termini di risultati mediatici ed effetti di mercato, da aver sopraffatto il motore primo, l’artista stesso, in uno stato di congelamento anacronistico difficile da superare, in una sorta di impasse di contenuti, idee e modalità, ormai ibernati e in attesa di essere risvegliati e combinati in una nuova, appassionante, collettiva visione di noi.
Il risultato è che in un contesto estremamente ricco di impulsi, si stiano sempre più sviluppando le dinamiche legate al “fare sistema”, dalla promozione al sostegno dell’arte contemporanea, dalla diffusione alla divulgazione di un settore che sta sfondando con prepotenza non tanto le barriere dell’elitarietà, ben lungi, purtroppo, dallo scomparire, quanto quelle delle imprese, delle università, dei linguaggi della moda, della stampa e così via, diventando un nuovo, fondamentale termine del dizionario delle nuove, colte, high e middle class.
L’anello mancante è proprio l’artista, trasformatosi, in un angosciante processo regressivo, da farfalla a crisalide, tanto da far affermare a Peter Weibel, in una recente intervista a “El País” che l’arte oggi appartiene al pubblico, più che all’artista, il quale ha perso il suo monopolio per ciò che concerne la creatività. Sembrerebbe quasi che tanta positiva opulenza di menti brillanti, procedimenti, risorse, interesse e iniziative abbia infine inibito l’artista, costringendolo inevitabilmente a ripiegare su se stesso, autorelegandosi in un passato carico di nostalgia in cui fare il suo mestiere significava essere lo specchio della Storia e non il suo giullare, allontanando da sé un nuovo mondo in cui i professionisti e le loro strategie appaiono talvolta più creativi, costruttivi e ben fondati dell’opera d’arte stessa.
Per quanto concerne, infatti, l’arte dell’ultimo decennio, l’approccio alla realtà si è evoluto in un rapporto ambivalente. Da un lato si progettano forme di fuga, congetture utopiche di scenari paralleli e avveniristici, o di atmosfere surreali, quanto criptiche e inaccessibili: bastino per tutti le azioni di Tino Sehgal e dell’enfant prodige Nico Vascellari. L’atto di ribellione, tuttavia è perfettamente calibrato nella teatralità dell’azione, progettata con delicate sfumature glamour, più happening che performance. L’improvvisazione e la spontaneità non sono previste. Tutto deve procedere come da copione, in un mix anti-nevralgico di elementi debordiani, rigido humour del decennio scorso e congelamento patinato.
Dall’altro, l’artista sembra essere scollegato dagli avvenimenti contemporanei, distaccato com’è dalla Storia degli ultimi dieci anni circa. Questo fenomeno, che sembra cogliere maggiormente l’ultima generazione, ha effetti molto preoccupanti in una realtà così densa di accadimenti, dalla confusione generale della politica, alla carica seduttiva straordinaria delle primarie americane (colta in parte da Francesco Vezzoli), fino all’esasperazione della dimensione pubblica di fatti e misfatti comuni quanto privati su Youtube, solo per citare qualche esempio, nell’immensità di una Storia che nel 2007 non ha di certo risparmiato colpi di scena.
Eppure il sentimento che sembra aleggiare nella produzione delle nuove leve è quello di chi osserva da fuori -senza un’effettiva partecipazione-, di chi apre a caso un quotidiano o un manuale universitario e sceglie di dedicarsi a un’interpretazione leziosa e manieristica di un tema assegnato, utilizzando come regola formale la grammatica assorbita da ricerche precedenti e ormai istituzionalizzate. Valga per tutti l’apologia degli stili dell’ultimo Martin Creed.
Ciò che sembra mancare, senza voler dare giudizi di merito, è lo struggimento che caratterizzava, ad esempio, le tele di Mario Mafai, le bruciature di Alberto Burri, la secchezza distruttiva dei suoi Cretti, le lacerazioni di Lucio Fontana.
È come se l’artista contemporaneo stesse cercando di recuperare nuovamente il dialogo con la realtà, senza riuscire mai a compiere il passo successivo di calarsi completamente in essa. La condizione generale sembra essere, in fondo, quella di un sistema (quello dell’arte) così interessante nella sua attuale esplosione straordinaria, in termini di risultati mediatici ed effetti di mercato, da aver sopraffatto il motore primo, l’artista stesso, in uno stato di congelamento anacronistico difficile da superare, in una sorta di impasse di contenuti, idee e modalità, ormai ibernati e in attesa di essere risvegliati e combinati in una nuova, appassionante, collettiva visione di noi.
Il risultato è che in un contesto estremamente ricco di impulsi, si stiano sempre più sviluppando le dinamiche legate al “fare sistema”, dalla promozione al sostegno dell’arte contemporanea, dalla diffusione alla divulgazione di un settore che sta sfondando con prepotenza non tanto le barriere dell’elitarietà, ben lungi, purtroppo, dallo scomparire, quanto quelle delle imprese, delle università, dei linguaggi della moda, della stampa e così via, diventando un nuovo, fondamentale termine del dizionario delle nuove, colte, high e middle class.
L’anello mancante è proprio l’artista, trasformatosi, in un angosciante processo regressivo, da farfalla a crisalide, tanto da far affermare a Peter Weibel, in una recente intervista a “El País” che l’arte oggi appartiene al pubblico, più che all’artista, il quale ha perso il suo monopolio per ciò che concerne la creatività. Sembrerebbe quasi che tanta positiva opulenza di menti brillanti, procedimenti, risorse, interesse e iniziative abbia infine inibito l’artista, costringendolo inevitabilmente a ripiegare su se stesso, autorelegandosi in un passato carico di nostalgia in cui fare il suo mestiere significava essere lo specchio della Storia e non il suo giullare, allontanando da sé un nuovo mondo in cui i professionisti e le loro strategie appaiono talvolta più creativi, costruttivi e ben fondati dell’opera d’arte stessa.
santa nastro
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 47. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
è un vero piacere leggere a Santa Nastro. Condividete?
si, condivido
attenzione però alla nostalgia x artisti (Burri, Mafai ecc.)
che non funzionano come antitesi nell’appiattimento attuali
grande articolo!
condivido.
Santa Nastro ben sintetizza la situazione odierna dell’arte contemporanea, forse una tra le poche “penne” di exibart ad aver un vero spirito critico lontano da ogni piaggeria. Come si era già più volte detto il problema è rappresentato dal fatto che molti artisti non eseguono manualmente la propria opera, lasciando ad altri il compito di svilupparla. Ciò elimina da ogni lavoro artistico il sentimento di drammaticità lasciando spazio alla sola originalità.
L’audacia di questi artisti che negli ultimi anni si sono imposti all’attenzione del mondo è un gioco fanciullesco di fronte alla scoperta di una verità.
Quasi tutti gli artisti contemporanei non sono che inventori di nuove meccaniche, ma questo dubito sia una virtù, una qualità.Il fatto stesso dell’invenzione dimostra la inanità dell’opera loro. Non è troppo affermar che si tratta solamente di stile.
L’originalità nelle questioni artistiche non ha un valore vero. Il solo risultato che hanno ottenuto questi artisti è che la loro opera ha liberato il mondo dall’estetismo tradizionale.
L’originalità in arte rappresenta la facilità dell’affare.
Sì, è un articolo interessante.
articolo attento e lucido.
un’altra cosa a commento:
prendiamo il caso Vascellari (e se ne potrebbero fare molti altri)
come si fa a invitare alla Biennale uno che fa una performance così scema?
non si conoscono neanche i precedenti più ovvi!non si conosce nemmeno il contesto che li ha creati!
se Vascellari merita la Biennale allora i vari Throbbling Gristle, Monte Cazazza, Sex Pistols ecc. , cosa meritano? il nobel?
Il problema è anche che ai tempi di Burri e C. c’era meno concorrenza e i vari paesi erano meno collegati e in comunicazione. Oggi esite un numero abnorme di artisti e molte opere sono assolutamente intercambiabili. La qualità e la differenza le fanno il sistema che regge l’artista (politici culturali,gallerie,critici e curatori). Ovviamente il lavoro dell’artista deve essere minimamente interesante ed ecco che nasce vascellari. Ma sono fuochi di paglia fino a quando non esistono persone importanti che ricevono guadagno a trasformare vascellari in un cattelan.