Chiamiamoci alle arti

di - 29 Settembre 2012
L’Italia forse è fuori dal tunnel. Per il 2013 si annuncia addirittura una ripresina, impercettibile come una piuma. E forse Monti si ricandida. Quindi, stavolta senza lacrime e sangue – promette (?) – dovremmo continuare sul trend giusto ed essere sempre più rispettati all’estero e più affidabili per i mercati. Marchionne invece continua il suo simpatico balletto da manager gigione in pulloverino blu, ma alla fine forse governo e sindacati riusciranno a strappargli la permanenza di Fiat in Italia. Salvo qualche gesto autolesionista (sempre possibile a sinistra e dintorni) nella prossima primavera, a Roma, ci dovremmo liberare  d’un sol colpo di Alemanno e della giunta regionale mascherata (?) da maiali.
Flebili, ma schietti segnali di ripresa, insomma. L’Italia comincia a intravedere la luce. La cultura però continua ad affogare. Non c’è Monti, né tanto meno Ornaghi, che tengano. Si continua ad andare giù. I tagli non si fermano, i posti di lavoro si contraggono, i musei continuano a chiudere o fanno mostre quasi solo con le collezioni private, il direttore artistico del Padiglione Italia, a nove mesi dall’inizio della Biennale di Venezia, ancora manca. I giovani che escono da facoltà, master e prestigiosi corsi in arte e beni culturali continuano ad essere disoccupati ed elemosinano stage come fossero manna dal cielo e così via precipitando. Il disordine è grande, insomma. Grandissimo, ma la situazione è tutt’altro che eccellente. Anzi, diciamola tutta, fa pena.
Sarà per questa contingenza particolarmente critica, che l’AMACI – l’associazione che riunisce 27 musei d’arte contemporanea italiani – si è decisa a battere un colpo e ci chiama tutti a difendere le Arti oggi, 29 settembre, davanti al MAXXI in piazza Boetti (la chiamiamo così, ma neanche questo semplice e doveroso omaggio è stato ratificato). Come sapete dalle tante news fatte da noi e lette anche altrove, c’è un programma che abbraccia svariati temi e coinvolge numerosi interlocutori, tanto che dalle 12 alle 18 di oggi dovremmo partecipare, quanto più numerosi possibile, a una ferma presa di posizione sul futuro della nostra cultura. Tirando fuori idee e proposte, favoriti anche dalla significativa inversione di tendenza di un’organizzazione che, pur nata da nove anni – nel 2003 su iniziativa di alcuni direttori di musei italiani con in testa Giacinto di Pietrantonio che realizzò il primo incontro nella sua GAMeC di Bergamo – non ha finora brillato per una presenza efficace sulla scena culturale.
Non faccio mistero del fatto che ho nutrito dubbi su AMACI come struttura chiusa, sollecitandola più volte ad avere un ruolo più pubblico che privato, ad essere più presente e più incisiva, smettendo di riflettere a porte chiuse della situazione in cui versano i musei, e quindi del disinteresse istituzionale verso gli stessi, e di farsi sentire, per esempio, di fronte a fatti gravi ed inaccettabili, come le nomine, di colore politico e all’insegna del più totale sprezzo per la nostra cultura contemporanea, come è stata, in particolare, quella di Vittorio Sgarbi alla direzione del Padiglione Italia dell’ultima Biennale di Venezia.
Ma in Italia, e non solo per la “cultura” berlusconiana che ha impazzato negli ultimi vent’anni, c’è una tale disabitudine alla critica (aggiungere l’aggettivo “costruttiva” mi pare quasi superfluo) per cui, anche nell’arte, chi la pensa in un altro modo, e non è uno “Yes man”, facilmente viene tacciato per ostile o bollato con un formula un po’ ridicola da noi, come soggetto “che non fa sistema”.
Ma oggi sistema lo facciamo, con AMACI in testa, anzi spinti da AMACI. E la cosa non può che farci piacere. «Continuare a dirci le cose tra di noi non ha più senso. Intorno ai 27 musei che AMACI rappresenta c’è tutto un mondo che lavora, che va ascoltato e che deve essere più protagonista anche delle nostre discussioni. Inoltre, inorno all’arte c’è una società civile molto importante il cui ruolo va valorizzato. L’idea, quindi, è semplice: metterci insieme e tirare fuori delle proposte, rompendo l’isolamento. Personalmente credo molto a questo impegno e penso che alla fine si risolverà in una crescita per tutti», Ad esprimersi così, con una chiarezza che prima AMACI non aveva mai avuto, è la presidente Beatrice Merz, in carica da dall’inizio di aprile. E forse non a caso, essendo lei per certi versi un outsider, fino a poco più di due anni fa fuori dalle istituzioni e dai vertici museali. Anche se è sempre Beatrice Merz a sottolineare la “compattezza” di AMACI su una svolta del genere: «Continueremo nel nostro lavoro abituale, fatto soprattutto di scambi tra noi direttori sulle metodologie di lavoro, ma questo non esclude la scelta di sentire anche altri soggetti, al di fuori di noi. C’è bisogno di contributi, anche perché in un momento del genere non si deve più piangere, ma fare».
Già, fare. Questo è il punto. I compiti sono tanti, la situazione, sotto gli occhi di tutti, maledettamente critica. Dopo 164 giorni, tanti ne conta l’orologio di Exibart, Mario Monti non ha mai risposto alla richiesta di un incontro avanzata da AMACI. Le difficoltà ad aggredire questo stato di cose nascono anche dal fatto che per lo più i direttori dei 27 musei sperimentano un’attività per certi versi nuova per loro stessi, non avendo una preparazione in materia (cosa possibile forse solo nel mitico “estero”), ma essendo cresciuti professionalmente sul campo, per giunta poco fertile. I musei d’arte contemporanea sono una realtà piuttosto nuova in Italia, per tanti anni ce ne sono stati solo due: il Castello di  Rivoli e il Pecci di Prato. Dunque, è particolarmente complicato elaborare una strategia vincente, o quanto meno d’attacco, su una materia come l’arte contemporanea. Parecchio fragile, anche perché cannibalizzata dal nostro ingente patrimonio storico che giustamente va difeso e tutelato (ma i crolli di Pompei e dintorni dimostrano che si fa molto poco anche in questo campo) e che assorbe quei pochi fondi che il governo italiano ha storicamente stanziato per la cultura. Sarà dura, ma con o senza AMACI, prima o poi ci dobbiamo riuscire.
Anche perché, ora, c’è sul serio bisogno di una svolta. Non c’è più tempo per piangersi addosso, ma neanche per continuare come prima. Qualunque governo avremo da aprile 2013 in poi, si dovrà fare carico di raccattare le macerie che avvolgono come un sozzo sudario il nostro Belpaese e voltare pagina.  Dovrà capire – finalmente – che la crescita materiale ha spesso significato lo spreco di energie e risorse e la distruzione di una fetta fondamentale del nostro patrimonio culturale – il paesaggio – e che bisogna invertire la tendenza, avendo come orizzonte di massima una “decrescita” e puntando sull’ “immateriale”. Tra cui la cultura, come risorsa, bene comune su cui basare, sebbene non esclusivamente (nessuno di noi è matto da pensarla unico motore possibile), uno sviluppo diverso. E il mondo della cultura, gli intellettuali, come si diceva un tempo, dovranno fare la loro parte, magari cominciando proprio con il ridare senso a queste parole. Già non sarebbe poco. Del resto, è il dovere di un’elite – perché tale siamo e nascondersi dietro a un dito serve a poco – assumersi delle responsabilità verso la società. Nel nostro caso abbiamo la fortuna di poter aggiungere fantasia e, spesso, speziata passione. E anche questo non è poco.
Un’idea di “decrescita”, o di altra crescita, che a prima vista può sembrare utopica, addirittura massimalista, perché non farebbe i conti con la dura realtà delle cose, penso invece si possa sostanziare di idee e proposte, come dice Beatrice Merz, molto concrete e, al momento, molto basic. Che vanno dalla chiarezza in materia di defiscalizzazione (nel numero cartaceo di Exibart in distribuzione in questi giorni, trovare un’ampia inchiesta in merito) alla trasparenza delle procedure gestionali dei musei stessi, a cosa significa oggi, in un mondo cambiato radicalmente a seguito della grande crisi economica che stiamo vivendo, “offerta culturale”, formula piuttosto abusata e a volte anche mal confezionata. Fino, probabilmente, a rivedere la stessa idea di museo d’arte contemporanea, che in Italia continuano a nascere e a morire con una disinvoltura che ha dell’inquietante, seppure nell’indifferenza generale.  Questo, per iniziare, ma molto c’è da fare. E per questo dobbiamo essere a piazza Alighiero Boetti, oggi, 29 settembre. Non mancate!

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