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01
maggio 2014
Come funzionano l’arte e la memoria all’epoca dei social media?
Politica e opinioni
Abbiamo sempre più bisogno di raccontare e di immagazzinare le nostre storie. Forse sono solo operazioni per esorcizzare il vuoto. Facilitate da una tecnologia apparentemente amica. Ma cosa rimane dell’esperienza che abbiamo vissuto davanti a un’opera dopo averla condivisa nella nostra rete di contatti? O della mia esperienza di spettatore mentre scatto una foto a una performance per pubblicarla su Facebook?
“All’uomo artista, che oscilla tra la visione del mondo matematica e quella religiosa, in modo tutto particolare viene in soccorso la memoria, sia quella della personalità collettiva sia quella dell’individuo” (Aby Warburg).
Il Turner Prize 2013 ha incoronato l’artista francese Laure Prouvost con l’installazione Wantee, opera stratificata che mette in scena una relazione fittizia tra il nonno dell’artista e Kurt Schwitters. Il 4 dicembre, a Milano, è stato presentato l’ultima opera dei cineasti Gianikian e Lucchi, intitolato Pays Barbare (2013), struggente riflessione filmica sulla storia e sulla contemporaneità. Nel frattempo, il quotidiano La Stampa ha lanciato un’iniziativa sui social media, in collaborazione con il The Guardian, per celebrare il centenario della Prima Guerra Mondiale raccogliendo le testimonianze e le storie familiari da destinare alla piattaforma Witness del progetto Europa, un archivio digitale.
Tre elementi eterogenei indicativi di una problematica che pervade la scena culturale contemporanea, percorsa da una percepibile ansia legata alla perdita della memoria. I tre elementi sopra citati, apparentemente distanti tra loro, sono rivelatori di una tendenza che si manifesta nelle pratiche della narrazione, destinate a colmare lo spazio della memoria, rimasto improvvisamente vuoto. Fotografare il fenomeno di reazione che l’arte contemporanea sta mettendo in atto come forma di resistenza alla damnatio memoriae dell’epoca digitale può essere interessante per tracciare un percorso di senso, tuttora in divenire, che si proietti nel futuro più prossimo.
Memoria, o meglio, memorie: frammentate, differenti, finzionali, si moltiplicano esponenzialmente fino a saturare il contemporaneo. Il bisogno ossessivo di raccontare – tutto è o sembra avere la dignità di divenire “storytelling”, e la deriva verso il dato minimo, l’autobiografia, la cronaca secondo per secondo delle esistenze di ognuno che anima in maniera prepotente il corpo dei social network appare un tentativo malinconico di negare l’impossibilità di fissare il ricordo, di stabilire un distacco e uscire dal flusso stringente del “qui e ora”. La forzata persistenza nel presente, perpetrata attraverso i social media, è strettamente relazionata all’evaporazione della memoria stessa. L’arte contemporanea manifesta il disagio che scaturisce da questa disancorazione e inventa nuove forme di antagonismo per contrastare l’orizzonte bianco di un progressivo Alzheimer collettivo.
Il bisogno di narrare sembra aver pervaso tutti i media, dando vita a una superfetazione di racconti e a forme ed esperienze artistiche che recuperano tale linguaggio, struttura per decenni accantonata nel campo dell’arte contemporanea a favore di linguaggi anti-narrativi. Se nel postmoderno l’iperproduzione di immagini è stato uno dei temi nodali, così in questa specifico momento che ancora non ha un nome e che potremmo definire, seguendo una riflessione aperta da Derrick De Kerckhove, era della connettività, la parola scritta ha recuperato momentaneamente uno spazio preponderante, ordinando e governando, dal punto di vista digitale, i contenuti che popolano la rete e le nostre interazioni quotidiane.
La pratica della memoria che esperiamo quotidianamente è segnata profondamente dall’immaterialità dei supporti. Mentre scriviamo compulsivamente su web, fotografiamo, produciamo contenuti con il quasi esclusivo scopo di condividerli con un non meglio definito network di relazioni, l’atto stesso di produrre e affidare tali contenuti a un supporto volatile come i byte, a loro volta allocati su “cloud” gestite da entità commerciali, ci libera immediatamente dal peso del ricordo e ci prepara al momento successivo. Lo spazio di elaborazione dell’esperienza, quello spazio vitale, critico, germinale che si espande durante la fruizione dell’opera d’arte, si comprime violentemente nella dimensione del social network , fino a scomparire. Vi ricordate il vostro post più bello? La foto su Instagram con più “Like”? Ricordate invece l’opera di Dolores Salcedo che spaccava in due la Turbine Hall della Tate Modern o una grafica di Max Ernst vista per caso in una mostra di cui non ricordate neppure il nome? Si tratta certo di una provocazione, e le risposte sono diametralmente opposte e lampanti. Ma più interessante è forse domandarsi: cosa rimane dell’esperienza che abbiamo vissuto al cospetto dell’opera d’arte, ogni qual volta l’abbiamo quasi istantaneamente condivisa attraverso la nostra rete di contatti? Come è stata influenzata e cosa permane in me della mia esperienza di spettatore, mentre scatto una foto ad un dipinto, una performance, per pubblicarla Facebook? La risposta, a mio avviso, è chiara: niente.
Sin dai tempi remoti ci è apparso chiaro che la memoria avesse un rapporto di sangue con l’opera d’arte. In maniera elettiva con la scultura (e quindi la scrittura), poi con fotografia e immagine in movimento. Ora che le nostre vite sono profondamente segnate dall’utilizzo delle tecnologie digitali e dalla socialità dei media, la nostra memoria subisce una trasformazione radicale, erodendosi velocemente e scrollandosi di dosso la responsabilità di custodire i nostri ricordi, le esperienze, il sapere. Al suo posto, una rete vertiginosa di bit. Sia chiaro, nel mio osservare questo processo non c’è un atteggiamento “luddista”, piuttosto la fascinazione verso una epocale trasformazione dei nostri processi cognitivi, relazionali, percettivi. E altrettanto affascinante mi appare la capacità dell’arte di proporre sempre nuove possibilità di leggere e interpretare il reale, di farne esperienza mettendo in crisi il dato più evidente.
Al servizio Eterni.me, che offre la costruzione dell’avatar di un defunto che può dialogare quotidianamente con i familiari attraverso Skype, istintivamente pongo come antidoto la lentezza incisiva dei fotogrammi dei film di Gianikian e Lucchi. Alla finzione consolante e mistificante di un avatar, che impedisce la cristallizzazione del ricordo e l’elaborazione dell’esperienza della memoria, le opere filmiche della coppia di artisti collocano lo spettatore in una condizione di presente e di presenza attiva, dove la memoria è un esercizio necessario di comprensione di sé e del collettivo e dove l’emozione, che si sprigiona grazie a una compiutezza formale, a una bellezza dell’opera raggiunta grazie alla felicità della forma, è la mano tesa il cui invito raccogliamo per compiere un salto nel tempo e nello spazio.
Nel futuro distopico narrato con lucidità di Black Mirror, serie di culto della tv britannica si raccontano le possibili derive di un domani dominato dalle tecnologie digitali e dall’innovazione tecnologica. Tra gli episodi più riusciti, la storia di un dispositivo che permette di registrare i propri ricordi per rivivere in qualsiasi momento gli istanti della propria vita. Inutile dire come la vicenda si trasformi ben presto in un incubo paranoico per il protagonista, che non beneficia più della possibilità dell’oblio né del potere della memoria di modellare la nostra esperienza. Il dato nudo e crudo si impone e toglie ogni libertà. Un meccanismo spietato che colpisce perché specularmente opposto al movimento dell’opera d’arte: questa si manifesta e accade sempre nel presente, rinnovandosi ogni volta. Questa condizione di presente assoluto in cui si esprime e agisce l’opera d’arte – penso ai film di Tacita Dean, a un accumulo di Felix Gonzales-Torres, una silhoutte di Kara Walker o una scultura di Louise Bourgeois.
Non credo sia un caso che Massimiliano Gioni abbia scelto di realizzare il progetto de Il Palazzo Enciclopedico durante la Biennale del 2013. Una figura che sa certamente cogliere lo Zeitgeist contemporaneo quella di Gioni, mette in scena l’utopia borgesiana di un luogo fantastico che racchiuda tutto lo scibile umano. Un luogo che assomiglia molto alla rete dal punto di vista dell’ambizione onnisciente e che ne ricalca alcune peculiarità come l’opera di accumulazione del sapere, l’ipotetica possibilità di accedere e disporre di esso liberamente, l’organizzazione dei contenuti che può essere fruita in maniera diacronica, libera, procedendo in maniera associativa, la brama di immagini che ci induce a popolare il web di ritratti, selfie e quant’altro. Credo sia difficile non vedere in questa monumentale opera curatoriale una potente “macchina della memoria”, che ci pone di fronte alla necessità di riflettere sulla disinvoltura con cui maneggiamo le nostre autobiografie, le informazioni, il racconto collettivo delle nostre culture. Esiodo raccontava dell’unione tra Mnemosine e Zeus, e in quell’unione sacra vide la nascita le Muse. Il rapporto tra l’arte e la memoria si configura ancora oggi come filiale, consanguineo e delinea un orizzonte tragico inconfutabile. All’epoca della connettività, l’inebriante possibilità di essere always connected credo meriti di essere costantemente soppesata in tutte le sue (conseguenze, criticità, complicazioni), non subita passivamente come un effetto collaterale trascurabile.
L’arte richiama la nostra attenzione e ci impone l’esercizio attivo della memoria, una memoria che riguarda non solo eventi remoti ma in maniera forse anche più decisiva l’istante appena trascorso, un secondo fa, un momento prima. Facendoci aderire al presente, rivendicando uno spazio “altro”, interrompendo la connessione, ci riporta a una dimensione storico-culturale in cui collocarci, donandoci il tempo necessario affinché la nostra esperienza si sedimenti e diventi germinale per la nostra vita.