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Come preparare una tazza di tè nel modo giusto
Politica e opinioni
Nel 1999, la British Standards Institution ha ottenuto uno dei celebri IG-Nobel Awards per, lo sintetizza Wikipedia, le sei pagine di istruzioni su come preparare una tazza di tè nel modo giusto. Qualche tempo fa, uno studio scientifico ha dimostrato che, in determinate condizioni, se in un edificio senza aria condizionata inizia a fare caldo, le persone tendono a togliersi la giacca. La lista potrebbe essere lunga, e riguardare aspetti scientifici, umanistici, economici.
La National Science Foundation ha misurato che, nel solo 2018, sono stati pubblicati circa 2,5 milioni di articoli scientifici: circa un milione in più rispetto a quelli pubblicati nel solo anno 2008.
Tutto ciò, si badi bene, non è un “caso”, ma è il risultato di una specifica organizzazione del mondo accademico internazionale: a prescindere dalle reali condizioni di lavoro, una parte del mondo, di cui l’Italia è parte, ha stabilito come obiettivo di sviluppo un determinato numero di persone laureate. Di conseguenza, sono aumentati, e di molto, gli aspiranti ricercatori.
Questo comporta un incremento dell’offerta. Parallelamente, la mancanza di connessione tra industria e accademia comporta uno slancio verso la produzione scientifica, nella quale, un valore importante, è rappresentato dal numero di paper pubblicati. Il caso più banale è quello dei nostri concorsi pubblici, che spesso associano a tale indicatore quantitativo un punteggio aggiuntivo alla valutazione dei CV.
La situazione, in un quartiere popolare, verrebbe più o meno descritta così: se per vivere devi pubblicare articoli scientifici, allora pubblichi articoli scientifici.
La condizione non è molto diversa quando si guarda alle “misurazioni” nel mondo culturale: in parte perché tali misurazioni sono spesso affidate al comparto accademico, in parte perché ci sono persone che fanno “misurazioni per vivere”.
Questo comporta una serie di riflessioni: la prima è che quindi queste persone tenderanno a misurare qualunque cosa; la seconda è che le organizzazioni tendono a privilegiare quelle misurazioni che permettono di presentarsi al grande pubblico come un caso di successo.
È questo il motivo che spiega la schizofrenia dei nostri “dati”: abbiamo un comparto culturale aggregato che registra sempre maggiori difficoltà ad intercettare i cittadini, e, contemporaneamente, abbiamo soltanto casi di successo.
Siamo, in pratica, l’unico caso al mondo in cui la somma di tutti gli addendi e inferiore agli addendi stessi.
Per evitare che questo emerga in tutta la sua semplicità, e consentendo così ai misuratori di misurare, si analizzano gli elementi più impercettibili, si creano “eventi” che tendono ad incrementare il numero di visitatori totali senza preoccuparci della qualità dell’esperienza, si strutturano ricerche sempre differenti.
Non fingiamo di non saperlo: oggi su Google Scholar o sugli altri aggregatori di ricerche scientifiche è possibile rintracciare paper a sostegno di qualunque cosa e del suo contrario.
Così come con l’eccesso di offerta si è quindi snaturata la funzione stessa della ricerca, che un tempo indicava cosa fosse corretto o sbagliato e che oggi invece certifica quello che, a prescindere, si intende dimostrare, così la produzione di misurazioni inutili ha snaturato il concetto stesso di analisi delle performance in ambito culturale.
Non è colpa di nessuno: le organizzazioni hanno tutti gli interessi a che si mostrino i propri lati migliori, i ricercatori hanno tutti gli interessi a pubblicare e partecipare a convegni, gli Atenei hanno tutti gli interessi a che un soggetto terzo commissioni loro delle ricerche.
È indubbio che però, se non ci poniamo le giuste domande, non avremo giuste risposte.
Perché, come scrive Douglas Adams, “la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto è 42”.