CRONACHE DALL’OTTAVA ARTE |

di - 22 Giugno 2006

Un omone con gonnellino scozzese, colbacco rosa e strane escrescenze alla bocca, salta fuori da una pedana rotante su cui si alternano personaggi altrettanto bizzarri. Una musichetta minimale e dal ritmo incalzante, tipica dei videogames degli albori, lo accompagna lungo la scalata dei diversi piani del Guggenheim di New York. Sa di dover compiere una missione, fare un qualcosa per poter uscire da quell’ambiente e passare al livello successivo, ma tutto è confuso, apparentemente illogico, almeno sino a quando s’imbatte in un’affascinante donna. Le si avvicina e la bacia. Sogno, desiderio e passione durano però ben poco, la donna è diventata un feroce felino e il nostro eroe viene ferito, ma -dejavu- tutto gli è ora finalmente chiaro. Fugge dall’aggressore, si appropria di un’arma scoperta in precedenza sotto alcune mattonelle, torna dalla donna-felino e la uccide.
È una sceneggiatura da videogame? Il protagonista è un lontano cugino scozzese di Lara Croft? Niente di tutto ciò, si è semplicemente di fronte al capitolo The Order di Cremaster 3, vero e proprio monumento alla realtà videoludica eretto da Matthew Barney nel 2002.
Da oltre un decennio numerosi artisti si confrontano con questo nuovo medium, comparso sul mercato a inizi anni settanta, introiettandone storie, personaggi, strutture e schemi interattivi. Pac-Man, Super Mario, Lara Croft e tante altre icone dello star system videoludico hanno invaso le superfici bidimensionali della pittura o guadagnato la tanto agognata terza dimensione, non solo nella grafica 3d, ma pure nella scultura. Altri artisti hanno decostruito e modificato videogames già esistenti, oppure ne hanno creati di nuovi per poi esporli in galleria o nel web.

Ebbene sì, la realtà videoludica è ormai talmente radicata nell’immaginario collettivo da investire e ispirare opere di primo ordine. Ma se è lecito non avere alcun dubbio su un suo stabile insediamento nel mondo dell’arte, un interrogativo di non secondaria importanza rimane ancora aperto. Può il videogame in sé, indipendentemente dalle sue ibridazioni con il cinema e le arti plastiche, assurgere allo status di opera d’arte?
A ben analizzare gli scritti di alcuni eminenti studiosi e certa arte del secolo appena trascorso, la risposta è affermativa.
Sin dagli inizi del XX secolo i rapporti tra gioco e cultura sono stati frequentissimi. Johan Huizinga, con la pubblicazione nel 1939 di Homo ludens, svelava al mondo intero quanto qualsiasi fenomeno culturale fosse profondamente impregnato dalla componente ludica. “Non si tratta di domandare quale posto occupi il gioco fra i rimanenti fenomeni culturali, ma in quale misura la cultura stessa abbia carattere di gioco”, sottolineava nell’introduzione al suo saggio, per poi rinvenire nella componente ludica uno dei pilastri portanti di religione, diritto, guerra, poesia, filosofia, scienza e arte. Il gioco diventava un’attività seria, non futile, degna di considerazioni intellettuali. L’argomento venne ulteriormente approfondito, trent’anni dopo, da Roger Caillois.

Nel frattempo le cosiddette serate futuriste e il Cabaret Voltaire avevano iniziato a rivoluzionare il modo di fruire la cultura, costringendo il pubblico a un atteggiamento attivo e all’interazione. Seguirono gli happening e Fluxus, mentre, in seno all’Internazionale Situazionista e al suo Laboratorio sperimentale di Alba (nel cuneese), prendeva corpo l’allucinata e utopica rivoluzione ludica permanente preconizzata da Guy Debord. Insomma fu gettato un seme e ancora oggi se ne colgono i frutti, ovvero una lunga lista di artisti, gruppi e correnti che, soprattutto negli anni settanta, hanno reso possibile una sempre maggiore interazione dello spettatore con l’opera d’arte.
Un secolo pieno zeppo di teorie, opere e azioni artistiche, volte a riabilitare l’interazione ludica, non è però bastato a scacciar via alcuni pregiudizi. Dall’alto dell’altare delle arti, i videogames continuano ad essere visti con sospetto o indifferenza. Eppure in essi l’interattività, croce e delizia di molta arte contemporanea, si è fusa alla perfezione con le immagini in movimento del linguaggio cinematografico, dando luogo a nuove e stimolanti esperienze estetiche.

Mondi virtuali autosufficienti e totalmente percorribili; avatar con cui esperire nuove personalità e nuovi ruoli sociali; livelli di immersione nell’opera talmente elevati da sfiorare una sindrome di Stendhal. I tempi sono ormai maturi per elevare il medium videoludico al gradino di ottava arte, ma le posizioni in merito sembrano ancora sin troppo timide e imbarazzate.

bibliografia essenziale
Matteo Bittanti, a cura di, Per una cultura dei videogames, Unicopli, Milano 2004
Mario Perniola, I situazionisti. Il movimento che ha profetizzato la Società dello spettacolo, Castelvecchi, Roma 2005
Johan Huizinga, Homo ludens, Einauidi, Torino 2002
Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2000

articoli correlati
Play. Quarant’anni di videogiochi
L’oading. Videogiochi geneticamente modificati
Play 2.0
link correlati
www.cremaster.net
www.videoludica.com

enzo lauria

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