DECENNIUM BUG |

di - 18 Marzo 2010
Attendiamo il parere degli storici, ma per chi l’ha vissuto
il decennio appena concluso è stato talvolta intelligente e affascinante, con
connotati ben definiti, talaltra di semplice transizione, ambiguo e
lobotomizzato. Cornice dell’11 settembre e di tragici rivolgimenti naturali, ci
ha portato la crisi economica e la scomparsa di Michael Jackson, ma anche il
primo presidente americano di colore e Wikipedia. Il grafico americano Phillip Niemeyer,
art director dello studio Double Triple, ha sintetizzato in una tabella
di 120 simboli (nell’immagine), apparsa poi sul New York Times, gli avvenimenti, le icone e le
tendenze degli ultimi dieci anni, incasellandoli in macrovoci. Sotto “culture”,
tra i Pokemon e American Idol figura, accompagnando uno squalo in formaldeide
stilizzato, l’etichetta Art Market, alludendo chiaramente alla famosa asta Beautiful
Inside my head forever
firmata Damien Hirst, che nel 2008 si portò a casa 111 milioni di sterline.

Fa pensare che l’incidenza dell’arte nell’ultimo decennio
sia qui semplicemente ricondotta a un’operazione di mercato, per quanto
interessante. È anche vero, però, che fra reality, telefonia mobile e il writers’
strike
, l’arte e
la musica sono gli unici settori a essere annoverati tra i fenomeni di cultura
popolare. Raramente, infatti, come nel 2000, l’arte ha vestito così bene lo
spirito del proprio tempo, impersonandolo nella forma, nei comportamenti, nelle
atmosfere. Apparentemente, l’arte non ha interiorizzato, né assunto su di sé le
responsabilità critiche di interpretazione dei cambiamenti in corso, decidendo
solo di proseguire nell’estetica degli anni ’90, cominciando un percorso
totalmente parallelo e svincolato, autoalimentandosi e intrecciandosi solo
raramente con altre industrie culturali o meccanismi sociali.
In realtà, l’adesione al reale è passata soprattutto
attraverso la rappresentazione, spesso a livello inconscio, del periodo. A
guidare “il pennello”, l’istinto per la cronaca, la voglia di porre
all’attenzione i dettagli trascurati, di raccontare se stessi e il proprio
mondo. Ma anche la negazione, il desiderio di compiacere le generazioni
precedenti, un certo immobilismo e senso d’impotenza, che spesso attanaglia i
giovani e, quindi, inevitabilmente, anche i giovani artisti.

Nel 2009, la mostra The Generational: Younger than
Jesus
, realizzata
presso il New Museum di New York, campionava, a livello internazionale, la
generazione emergente di artisti e le loro urgenze, anche attraverso un
macro-catalogo Phaidon. Ne fuoriusciva un quadro di preoccupazioni ben diverso
da quello che avrebbe potuto interessare i loro genitori, nel confronto con la
vita, le relazioni umane, lo spazio (abitativo o espositivo), ma soprattutto
con il futuro. La strada della “professionalizzazione” che necessariamente
questa generazione di artisti – a confronto con un mercato sempre più vasto,
internazionale e competitivo, con i sistemi emergenti, freschi e agguerriti,
spesso pieni di proposte interessanti, con un mestiere che è sempre meno
elitario – deve affrontare si contrappone a un calo del desiderio nei confronti
di un eventuale ingresso nella storia dell’arte.
Talvolta, infatti, stupisce (e fa tirare un sospiro di
sollievo) come anche il mondo dell’arte non abbia partorito un proprio talent
show (nonostante nel 2005 Christopher Sperandio, complice Jeffrey Deitch, ci
abbia provato con Art Star), approfittando dell’ascendente sempre maggiore che una
carriera nel mondo dell’arte ha oggi sui giovani. Nella società del “qui e
adesso” e dello squilibrio tra incertezza e pseudo-benessere come status
generazionale, il presente è l’unico diritto da afferrare. Ciò emerge anche dal
modo in cui avviene il confronto con passato e presente – astorico, meno
interessato alla ricostruzione, più narrativo, come nelle rappresentazioni di Francesco
Arena
della cella
di Aldo Moro e della palestra del massacro di Beslan (3,24 mq, 2004; s.t – Como, 2005), o nelle Teste in
Oggetto
(2009) di
Rossella Biscotti
– e con il futuro, che sfugge all’immaginazione.
Gli Anni Zero hanno, infine, visto la straordinaria
ascesa, ma anche il necessario crollo, la sconfitta, la promessa mancata del glamour
e delle sue
lusinghe. Piaccia o meno, una delle opere più suggestive e rappresentative di
questo decennio è stata For the love of God (2007) di Hirst, in cui la
seduzione della ricchezza, lo scintillio accecante di 8600 diamanti non
riescono a cancellare l’aura mortifera e il dilemma esistenziale raccontato al
teschio di Yorick.
Sono stati anni di risveglio, di lenta presa di coscienza
verso un decennio nuovo, interessante ma pericoloso, che avrà bisogno di
chiamare a raccolta le energie creative e intellettuali in grado di
interpretarlo, guidarlo, soddisfarlo. La mostra dedicata nell’estate 2009 dal
PS1 di New York a Jonathan Horowitz, a cura di Klaus Biesenbach, il suo personale reportage
degli Stati
Uniti, dalla politica alla cultura pop, dalle idiosincrasie ai percorsi nella
sofferenza, la sua critica feroce, intelligente e irriverente della società e
dei simboli che la circondano sembra essere un buon inizio. Appassionato,
partecipato, mai consolatorio.

santa nastro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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  • le tragedie son sempre le stesse, uomini che muoiono o sono sfruttati, oggi funzionano meglio perché sono direttamente in casa con internet o il televisore... e paiono sempre più mediaticamente noiose, l'arte poi pare che faccia di tutto per sembrare sempre più priva di estetica, proprio un artista come Jonathan Horowitz usando una quotidianità oggettuale (già largamente massificata come forme in ambito artistico) non mi pare riesca a dare una significativo senso di novità, anzi pare confermare un certo impoverimento di idee e di senso estetico, anche poveristico, basta confrontarlo con artisti come Rob Pruitt, Ian Kiar etc..

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