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di - 10 Maggio 2010
Laclotte, classe 1930, è un conservatoire, uno storico dell’arte esperto di
primitivi senesi non appartenente alla generazione dei sensibili (o fanatici)
alla gestione culturale. Ciò nonostante, Laclotte racconta ai lettori – con
naturalezza – che nella sua prima esperienza lavorativa, all’Ispettorato dei
Musei di provincia negli anni ‘50, ogni volta che si progettava un nuovo museo,
la fase preliminare era dedicata all’analisi del territorio e della comunità
che questo doveva andare a soddisfare.
Obiettivo? Capirne la domanda e le
esigenze. Ovviamente Laclotte racconta che quest’approccio, se normalmente
utilizzato per le piccole realtà periferiche, ancor di più acquisiva rilevanza
nei grandi progetti di cui è stato protagonista (Orsay e Louvre, appunto).
Tutto ciò in un paese statalista, assistenzialista e centralista per
eccellenza. Lo stesso possiamo dire che accada in Italia? Per di più dagli anni
‘50? Di sicuro neppure oggi si opera in questo modo, semmai accade il
contrario. Certo, le realtà periferiche una certa attenzione al contesto di
riferimento la pongono (i musei comunali e regionali), non sembra invece
facciano lo stesso le grandi realtà nazionali.

Per tutte poi c’è grande
attenzione da parte delle amministrazioni pubbliche a confezionare dei prodotti
mediatici, concentrandosi principalmente sulla realizzazione di imponenti e
costosissimi interventi architettonici. Nella migliore delle ipotesi si fanno
concorsi internazionali che richiamano le archistar
, ovviamente trascurando i
progettisti meno noti, e più giovani, che hanno un curriculum fisiologicamente
meno corposo ma probabilmente sono più freschi nelle idee e hanno
presumibilmente qualcosa in più da dire. Soprattutto non interessa la funzione
sociale del museo, ovvero dove si colloca e a chi si rivolge.
Addirittura in
Italia non si conosce neanche l’opportunità del piano di gestione, del
cosiddetto masterplan
che, individuando finalità e obiettivi dell’istituzione, stabilisce
risorse economiche, umane e infrastrutturali per poterli raggiungere,
prevedendo anche una misurazione dei risultati ottenuti e la valutazione di chi
ha concorso a raggiungerli. Documenti che, se sono trascurati
dall’amministrazione centrale, magari sono un po’ più adottati dagli enti
locali.

In questo contesto – considerata l’abitudine a fare conferenze stampa
per qualsiasi accadimento – mi sembra buona cosa che questo avvenga anche per
far conoscere alla collettività i contenuti e l’autorevolezza degli autori dei
piani di gestione.

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Fabio
Severino e le professioni della cultura
L’opinione
di Mario Gerosa
LPP
e gli opinionisti di Exibart.onpaper

fabio severino
vicepresidente
dell’associazione economia della cultura


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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