Chiude oggi “la mostra dell’anno”. Su Google impazzano il dibattito globale e gli sperticamenti dei fedelissimi. Oltre un milione e mezzo di voci correlate alle parole “Maurizio Cattelan All” e quasi un’ovazione generale per l’originalità della pioggia di oggetti appesi dalla balaustra «come prosciutti in una salumeria» a detta di Obrist. La dichiarazione d’amore più eloquente? Quella di Jerry Saltz all’indomani della mostra, che nel “New York Mag” ha scritto: «Resto sulle rampe fissando questa nuvola d’arte galleggiante e miasmatica, incantato, innervosito, contento per lui e desideroso di tornare sulle sue parole: non smettere!».
Sull’altro artista dei record, Damien Hirst, Saltz ha usato parole quasi paterne: riconosce che lo squalo in formaldeide possa stare tranquillamente anche in un ristorante di pesce ma quando si parla di Hirst si parla pur sempre di un artista “esilarante” che fa “auto-parodia”. Che sia questa la parola chiave dei giganti in bilico? Le 11 mostre mondiali, vero fenomeno di un gigantismo degli intenti, dei prezzi e della spettacolarizzazione, sembra si stia ritorcendo come un boomerang contro l’artista. Pare che all’epoca di Occupy Wall Street, di nuove austerity, di un ritorno ad un’arte in qualche modo “etica”, questo dispiegamento di mezzi su opere che tradiscono il loro lato effimero, puramente commerciale e poco estetico, possa solo scatenare un dissenso nemmeno malcelato.
Dal suo blog ospitato dal “Guardian”, Jonathan Jones scrive che Damien Hirst ha rotto il buon gusto britannico e non risparmia frecciatine divertenti: «si crede Willy Wonka perchè regalerà un multiplo firmato al visitatore che dimostrerà di aver passato in rassegna tutte le mostre». Un premio per ricchi, che non hanno problemi a passare da Beverly Hills a Hong Kong, deviando per Roma. Un discorso che si riallaccia all’idea della “completezza della mostra”. «Completa per chi? Hirst? Gagosian? O Dio?» si chiede Jones, visto che la maggior parte degli spettatori vedrà una sola sede.
Insomma, i grandi colossi sembrano minati alla base dalle voci degli addetti ai lavori. E anche su Cattelan al Guggenheim non sono fioccati solo complimenti, anzi.
Sul “New Yorker”, il novembre scorso, è uscito un articolo di Peter Schjeldhal che ha definito le dimissioni di Cattelan come il trucchetto di un personaggio particolarmente furbo che si diverte da anni con insolenza a mettere in scena una serie di oggetti umilianti sia per l’arte che per se stesso. Di nuovo l’”auto-parodia”? Secondo l’interpretazione di Shjeldhal, il passare per dementi, quando non lo si è affatto, è diventato anche per i ranghi alti dell’impero dell’arte contemporanea una carta di successo, da giocare con disinvoltura per ammaliare il pubblico, e non solo, in vena di leggerezza.
Altro gigante bastonato in tempi recenti è stato Richard Prince. L’artista statunitense, uno dei principali esponenti della Appropriation Art, è stato condannato per plagio per aver utilizzato nelle sue opere, le fotografie contenute nella collezione “Yes, Rasta” del fotografo francese Patrick Cariou.
Nonostante la Corte abbia verificato che alcuni di questi dipinti, pur essendo presi in toto dal libro di Cariou, rivelano collage, tagli, sovrapitture e sono in qualche modo sempre modificati, non ha ritenuto che ricorresse alcuna delle ipotesi di fair use: libero utilizzo senza necessità di autorizzazione per immagini protette previste dal Copyright Act, secondo il quale qualsiasi opera è suscettibile di reinterpretazione qualora da questa nasca una nuova opera destinata a promuovere altra conoscenza e progresso nella cultura dell’arte. La legge in questo caso si è fatta critica, e può discernere su cosa è arte e cosa non lo è.
Tornando a Cattelan, la giornalista Roberta Smith, dalle colonne del “New York Times”, ha citato tra le cose indimenticabili del 2011 «le lunghe file fuori il Guggenheim», ma poi ha bollato All come il canto del cigno di un artista ormai davvero a corto di idee che con questa installazione ha perfino reso patetiche opere che potevano avere un senso in altre location, vedi la Nona ora esposta su una specie di zattera. Alcuni visitatori hanno bloggato che la cascata di opere rimandava a un’impiccagione di massa (il tema della morte caro a Cattelan che da giovane pare abbia lavorato in un’impresa di pompe funebri). E c’è chi aggiunto che «il Guggenheim non è mai stato pieno di tanta umanità».
Dà una soluzione Earnest Jarret dalle pagine del magazine “Brooklyn Rail”, che prova a realizzare un’intervista seria con l’italiano sul numero odierno, ma anche qui si sfocia nell’aura “parodistica”: «La chiave mancante di questa comunicazione, da sempre letta come terribilmente fastidiosa, è l’esperienza del fascino inebriante di Cattelan. In qualche modo tutti vogliamo essere sedotti e nel suo comportamento, come nella sua arte, questa seduzione trascende ad un particolare tipo di sincerità. Su entrambi i lati (artista/ spettatore) vi è un tacito accordo: Cattelan chiede che l’interazione con la sua arte sia provvista da un grande senso di divertimento». Come no! La grande America del contemporaneo può permettersi anche il buffone più quotato della corte senza sporcarsi eccessivamente le mani ma anzi, riscuotendo ampi consensi. Anche perché, con buona pace di critici o amici, Cattelan ha di nuovo dato scacco matto a tutti. Persino a Mr. Wright, così metodico sull’utilizzo dei suoi spazi. Per quasi due mesi a New York non si è parlato d’altro che di Cattelan e della sua All, che ha oscurato la pur validissima mostra di Sherrie Levine al Whitney.
Qual è la conclusione? Che un gigante cade in piedi? O forse, se cade, come stiamo assistendo con la caduta delle quotazioni di Hirst all’indomani delle sue vendite milionarie da Sotheby’s, crolla buona parte dell’impero che ha contribuito a divinizzare i propri giullari? Che forse stanno cercando qualche nuovo gosth-writer per le prossime battute.