GLI ANNI ZERO, LA TERZA FINE DELL’ARTE E I SOPRANO |

di - 25 Marzo 2010
Io lo
sapevo che tutto ‘sto parlare d’arte ci portava problemi!

Tony
Soprano

Un decennio poco amato si è concluso. Quasi tutti i
resoconti di tumulazione degli Anni Zero ricordano da vicino quelli compilati
all’inizio degli anni ‘80, tra Un Paese senza di Arbasino e i vari addii con
tanto di sospiro di sollievo alle estenuazioni concettuali dei ‘70. In più, ci
sono il disagio e la sensazione spiacevole di “alterità” rispetto a un periodo
irriconoscibile. Ci sentiamo un po’ tutti come se ci avessero truffati ed
effettivamente, in fin dei conti, è proprio così. Iniziati in pompa magna e
squilli di tromba, segnati poi immediatamente dal crollo delle Torri Gemelle,
gli Anni Zero hanno promesso molto e mantenuto poco. Pochissimo. Anche dal
punto di vista artistico.
Per quanto riguarda l’arte contemporanea, infatti,
possiamo tranquillamente archiviarli come un prolungamento – artificiale,
pleonastico, autoreferenziale – degli anni ‘90. Che già si presentavano, sotto
molti aspetti, come un elaborato remake di qualcos’altro, legato
principalmente, ancora una volta, agli anni ‘70 (Tarantino e il pulp, il
post-concettualismo e il post-post-minimalismo).

E se guardiamo alle opere
d’arte degli ultimi dieci anni, non possiamo onestamente nasconderci la loro
sostanziale irrilevanza, da un punto di vista formale e, ancor più, tematico: a
parte un teschio ricoperto di diamanti, centinaia di accrocchi fosforescenti e
qualche ambiente op/pop da 2001: Odissea nello spazio, questa fase ha prodotto poco
altro di particolarmente, e veramente, significativo. Dunque, in definitiva, i
‘90 hanno occupato (finora) vent’anni rispetto alla durata normale. In Italia,
ma anche all’estero. Poco male, si dirà: capita che ci siano le cosiddette
“transizioni”.
Ma va tenuto conto di altri due fattori nel processo,
questi davvero caratterizzanti gli Anni Zero. La progressiva irrilevanza della facies dell’arte contemporanea si è
accompagnata, infatti, alla crescita abnorme della sua popolarità e della sua
dimensione di massa, in un meccanismo che ha tutta l’aria di una
proporzionalità inversa: quanto più l’arte ha successo, “sfonda” (fra i
teenager, tra le persone cool e up-to-date, tra gli anziani vip che detengono il potere),
tanto più sembra perdere di efficacia e di aderenza con la realtà. Uno sviluppo
inevitabile, che dunque va accettato e affrontato con rassegnazione, un po’
come il cambiamento climatico? Non proprio.
Basta guardare a quello che succede negli altri territori
creativi. Se pensiamo per un attimo al cinema degli Anni Zero, ci vengono in
mente istantaneamente almeno una decina di capolavori assoluti,
che-non-sarebbero-stati-mai-concepiti-cinque-o-dieci-anni-prima; lo stesso
accade per la letteratura (per la musica molto meno, e infatti si tratta
dell’area più idealmente e funzionalmente vicina all’arte). Mai come in questo
periodo, nel momento stesso del suo trionfo apparente e della sua massima
espansione, in termini di mercato e di valore simbolico, l’arte contemporanea
si è rivelata ancillare, avvitata su stessa e incapace di guardare altrove: in
questo senso, l’autoreferenzialità sempre più esasperata del mondo dell’arte e
lo stato comatoso della critica evidentemente non incoraggiano affatto
l’indagine nelle altre discipline.

Le serie tv si pongono all’estremo opposto nello spettro
creativo degli Anni Zero, che verranno perciò giustamente ricordati, oltre che
come l’era della rete 2.0 e della celebrity culture, anche come l’età dell’oro della
grande finzionalità televisiva. Mentre il nostro paese si attarda ancora in
deprimenti sceneggiati tra il finto-storico, il melodrammatico e il
semplicemente inguardabile (naturalmente fa eccezione L’Ispettore Coliandro dei Manetti Bros. e un po’ anche Boris), le fiction americane hanno
compiuto quella che può a buon diritto considerarsi un’autentica rivoluzione
copernicana, superando in molti casi lo stesso cinema hollywoodiano in termini
di complessità del linguaggio adottato e di profondità dei temi trattati.
Tantissimi i titoli: da CSI a Lost, da Flash Forward a Mad Men.
Il creatore di quest’ultima, Matthew Weiner, è anche lo
storico autore di quella che può essere a tutti gli effetti definita non solo
la serie più importante dell’ultimo ventennio, ma probabilmente anche l’opera
d’arte più completa degli Anni Zero: I Soprano. Epica nel tono e autenticamente
popolare nell’approccio, questa saga parte idealmente lì dove si interrompono
gli scorsesiani Goodfellas (1990) e Casino (1995), per indagare e analizzare il declino di una
nazione e di un’identità collettiva tra la fine del XX e l’inizio del XXI
secolo.

Nel passaggio dai fasti del passato alla crudezza e all’apparente
miseria umana del presente, I Soprano rielaborano e ribaltano il classico schema rise-and-fall della narrazione criminale al
cinema, trasformandolo in una considerazione estremamente contemporanea (e
universale…) del successo e del fallimento, della crescita e della
regressione, della crisi e della rinascita. Il miglior addio agli Anni Zero – e
il miglior viatico per gli Anni Dieci – può essere perciò la visione in
rigorosa sequenza delle sei stagioni prodotte dalla meritoria HBO, che
raccontano la comédie humaine di Tony Soprano e della sua Famiglia, nel New Jersey
dell’anima.

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*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n.
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Visualizza commenti

  • Sono pressochè d'accordo in tutto con te caro Caliandro..non a caso ho da poco terminato la visione di tutte e sei le serie dei Soprano in dvd. Riguardo la scena artistica pur nella continuità indubbia con gli anni '90 ho notato, limitatamente alla scena italiana che costituisce il mio ambito di interesse privilegiato opere interessanti di giovani artisti dotati anche di umiltà e consapevolezza e la costante attualità di molta della generazione anni'80. Ma entrambi gli specifici sono stati tenuti lontani dai riflettori del mainstream anche se l'aumento delle possibilità espositive ha permesso un minimo di visibilità

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