Qualche tempo fa, su queste colonne, riflettevamo sull’invecchiamento precoce dei recenti effetti digitali al cinema [1], rispetto a quelli, meccanici e ottici, della “vecchia scuola”. Da
2001: Odissea nello spazio a
Guerre stellari, per intenderci. Proprio i tre ultimi episodi della saga di
George Lucas (i
primi tre in ordine narrativo), realizzati dal 1999 al 2005, rappresentano un caso esemplificativo di questo discorso. Altri esempi utili possono essere
L’uomo senza ombra (2000) di
Paul Verhoeven,
I, robot (2004) di
Alex Proyas e
Io sono leggenda (2007) di
Francis Lawrence. C’è sempre qualcosa di decisamente obsolescente nelle immagini di tutti questi blockbuster -e in quelle di molti altri meno famosi-, fatto abbastanza sorprendente se si pensa che la maggior parte di essi ha al massimo cinque o sei anni di vita. Paesaggi, astronavi e mostri hanno perso quasi subito il carattere mimetico dell’illusione, per acquistare quello del cartone animato.
Stesso fenomeno accade nel campo della musica, soprattutto elettronica: si pensi per esempio a gruppi come i Boards of Canada o gli Autechre, e a quanto suonino datati già
oggi. E, ovviamente, in quello dell’arte contemporanea, con lo spettacolo quasi dantesco di giovani e giovanissimi autori risucchiati dal nulla a due o tre anni dal loro promettente exploit.
Questo superamento accelerato è forse il riflesso formale di fenomeni profondi che riguardano la nostra società, non riconducibile semplicemente e unicamente alla rapidissima evoluzione delle tecnologie nella nostra era.
Gli effetti speciali sono infatti il pendant, visivo e sonoro, dell’enciclopedismo digitale che costituisce il vero tratto caratteristico dell’ultimo decennio, apparentemente così multiforme, pluralista e confuso. Chris Anderson, direttore della rivista “Wired” dal 2001, ha sintetizzato le caratteristiche della nuova fruizione culturale influenzata dalla distribuzione online nella fortunata figura della
coda lunga, ponendo una moltitudine di questioni inedite e aperte sul contesto culturale del XXI secolo. Prima fra tutte, il problema della scelta: “
La travolgente realtà della nostra era online è che tutto è disponibile. I rivenditori in rete offrono varietà su una scala inimmaginabile anche solo dieci anni fa milioni di prodotti in ogni possibile variante e combinazione. Ma c’è bisogno di tutta questa scelta? Ed è gestibile?” [2]. Vale a dire: la disponibilità immediata di un archivio pressoché inesauribile di oggetti non esercita un potere “titanico” su chi si trova a effettuare la scelta finale tra di essi? La posizione di Anderson è che questa possibilità infinita non frastorna né paralizza la scelta, ma al contrario la favorisce.
Altre voci nel dibattito sono molto meno ottimistiche. Per esempio, in un articolo pubblicato su “The New Atlantis”, Christine Rosen scrive: “
Se queste tecnologie facilitano la polarizzazione in politica, che influenze esercitano sull’arte, la letteratura e la musica? Nella nostra frenesia di trovare il modo più rapido, comodo e facilmente individualizzato di trovare ciò che vogliamo, stiamo creando degli eclettici teatri personali o delle sofisticate camere di riverberazione? Stiamo promuovendo un individualismo creativo o un gretto individualismo? Un’espansione di scelte o un livellamento del gusto?” [3].
Senza cedere alla tentazione apocalittica e moralista, si può intanto costruire l’ipotesi che questa nuova possibilità di scelta illimitata in ogni campo non solo condanni i prodotti culturali all’invecchiamento precoce, ma che si presti anche, inevitabilmente, all’effetto-nostalgia. Se tutto mi è disponibile qui e ora (magari in formato digitale), ordinato in uno sterminato scaffale virtuale, allora il “tutto” probabilmente si identifica con
ciò che è stato prodotto fino a questo momento. L’esperirlo, la sua fruizione, richiede più tempo di quanto ne consenta una vita umana media: quindi, perché produrre il nuovo? Meglio “godere” di ciò che fino a poco tempo fa era solo per pochi, praticamente irraggiungibile.
Le “nicchie” di cui parla Anderson
si trovano dunque quasi sempre nel passato (più o meno recente), e l’onniscienza è, per costituzione, nostalgica.
Inoltre, queste nicchie, in cui il mercato di massa si sta progressivamente frammentando, non corrispondono esattamente alle vecchie culture underground (nel caso della musica, per esempio, il post-punk londinese, il grunge di Seattle, o la stessa house music di Chicago citata dall’autore): piuttosto, sono da immaginare come dei mercati di massa in miniatura, e i loro prodotti hanno tutto l’aspetto -inquietante o esaltante a seconda dei punti di vista- di mini-blockbuster, personalizzati secondo i gusti dell’utente.
Questa “
personalizzazione delle masse“, raffigurata e descritta dalla coda lunga, sancisce perciò l’estinzione delle culture realmente alternative.
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Va bene tutto, però non mi toccare i Boards of Canada!! ehehheh
Tempo fa mi sono riguardato classici come "il pianeta proibito", "viaggio allucinante", "Viaggio al centro della terra", "Zerdoz", ecc
Accipicchia, non credevo davvero che fossero in grado di darmi ancora tante emozioni come quando li guardai da ragazzo... hanno battuto i freddi films moderni!