GLOBAMA! |

di - 5 Febbraio 2009
I went to sleep last night tired from the fight
I’ve been fightin’ for tomorrow all my life yeah
I woke up this mornin’
Feelin’ brand new cause the dreams that I’ve been dreamin’
have finally came true
It’s a new day
WILL.I.AM, It’s a New Day (2008)

So di non essere il candidato più probabile per questa carica
Barack Obama, Denver, 28 agosto 2008

Smaltita la sbornia post-elettorale con contorno di analisi sociologiche più o meno improvvisate, più o meno azzeccate, l’ascesa di Barack Obama al soglio della Casa Bianca si presta a qualche riflessione di contorno.
Innanzitutto, come già qualcuno ha notato, che Obama sia il primo presidente nero è solo una parte della verità. La portata storica dell’evento risiede infatti proprio nell’identità multirazziale e in qualche misura post-razziale del Presidente, nel suo essere il primo leader autenticamente “globale” nella storia (almeno in quella più recente). Lasciando da parte l’agiografia e la retorica, è pur vero che questa storia personale – fatta di politica e programma – corrisponde in modo unico ai processi in atto nella società contemporanea, per definire i quali lo stesso termine “globalizzazione” appare ammuffito e arcaico: “Con una nonna in Kenya, una sorellastra indonesiana alle Hawaii e un fratellastro che vive in Cina, la famiglia di Barack rappresenta, da sola, una piccola diaspora. Le Nazioni Unite di Obama, scherza qualcuno. Fatto sta che è difficile immaginare un’incarnazione più perfetta dell’America del XXI secolo. Un paese nel quale i bianchi sono destinati a non essere più maggioranza, senza che alcun’altra egemonia si sostituisca alla loro” [1].
Così, l’appartenenza alla comunità e alla cultura afro-americana rappresenta solo una parte del successo di Obama, che è riuscito in un’impresa da molti giudicata all’inizio impossibile proprio grazie alla sua capacità di sfuggire agli schemi novecenteschi e alle pastoie ideologiche. Eppure, proprio la black culture incarnata dalle sue star (attori, cantanti, sportivi) è stata determinante per la vittoria. Da sempre, gli Stati Uniti (e il mondo occidentale in genere) subiscono il fascino della cultura nera nelle sue varie incarnazioni, dal jazz al soul all’hip hop, ma negli ultimi vent’anni essa ha guadagnato posizioni sempre più rilevanti all’interno del mainstream: “Espandendosi, la cultura nera ha perso le sue caratteristiche più inquietanti e violente. Ha smesso di collocarsi a metà strada tra il polo della paura e quello dello spettacolo rispetto alla società bianca. […] Anziché rimanere ai margini, il dilagare dell’hip hop si è saldato con le altre componenti del successo dei membri della comunità nera nello star system (il fenomeno Oprah Winfrey, gli incassi di Will Smith, le star del football e della Nba) collocando, per la prima volta, la black culture al centro della scena. […] Da un certo punto di vista, Obama si è limitato a reinvestire nella sfera politica il patrimonio accumulato dalla black culture nella dimensione simbolica e culturale” [2].
Siamo in presenza della cara vecchia egemonia culturale? Comunque sia, già si intravedono i segni di una fioritura di cui è difficile prevedere gli esiti. Dopo l’exploit, per esempio, del singolo Yes We Can, che coinvolgeva tutta la Hollywood giovane e progressista, Will.i.am ci riprova con It’s a New Day, il cui instant-video ammicca a Youtube e a tutta l’estetica della partecipazione fai-da-te propria dei social network digitali. In tempo reale, il cantante dei Black Eyed Peas fornisce al pubblico la registrazione dell’evento storico e la sua colonna sonora, nuova di zecca e al tempo stesso apparentemente approssimativa, non-patinata.
Ancora più interessante, almeno per quanto riguarda le sue implicazioni culturali, il caso di Seal, che ritorna sulla scena con l’album di cover Soul. L’apripista è, naturalmente, A Change is Gonna Come di Sam Cooke, subito in testa alle classifiche americane. Vale la pena di notare che la canzone fu composta da Cooke nel 1963, poco prima di morire, sulla scorta di Blowin’ in the Wind e dell’impressione fortissima ricavata dall’inno politico di Bob Dylan. Certo, si tratterà anche di sfruttamento e speculazione commerciale, però questa evoluzione imprevista del revival è a dir poco stupefacente. Laddove infatti esso non riguarda più solo mode, acconciature e suoni, ma diventa anche revival delle lotte civili e della coscienza politica, cessa di sembrare un fenomeno dannoso e tutto sommato vacuo per assumere tutto un altro aspetto.
Se a questo si aggiungono Daniel Craig che improvvisamente propone un James Bond nero, e Jamie Foxx che prontamente si autocandida per quel ruolo, il quadro di un possibile nuovo Rinascimento black, che oltrepassi i confini della moda e della mania, e perfino quelli di fenomeno di costume, appare decisamente più chiaro.
Ma il fenomeno-Obama va ben oltre i confini della comunità nera e della sua affermazione, per approdare al territorio dell’arte contemporanea. Inaspettatamente, infatti, nel corso del 2008 l’icona della campagna prima e dell’elezione poi è divenuto il poster realizzato da Shepard Fairey, alias Obey. La vicenda è partita discretamente, in gennaio, con la realizzazione di un’edizione limitata di stampe, esaurita in quindici minuti, e di una serie più ampia di poster. Mesi dopo, quell’immagine fortemente stilizzata è finita sulle prime pagine di tutto il mondo, sovrapponendosi e fondendosi con il “vero” Obama. Gradualmente, le parole “Hope” e “Change” hanno affiancato e sostituito “Progress”, che forse sapeva troppo di socialismo otto-novecentesco. Del resto, tutte le critiche si sono concentrate proprio sullo stile del poster, e sull’invito al culto della personalità che lo sottenderebbe. Ma questa sorta di appropriazione degli anni ‘30, a metà strada tra costruttivismo sovietico e Wpa roosveltiano, corrisponde esattamente all’atmosfera di cui Obama si è circondato finora e che vorrebbe imprimere al prossimo decennio. Una cosa che i critici d’arte della domenica non dicono è che tutti questi elementi, fino a un anno fa, erano assolutamente fuori moda. I valori estetici dominanti erano (e in parte sono tuttora) altri, in molti casi opposti, ed era semplicemente impensabile un’immagine che sembra, come ha scritto Meghan Daum del Los Angeles Times, “un dittatore da Terzo Mondo” o in alternativa “uno di quei personaggi su una serigrafia di Warhol che non riconoscete ma che pensate debbano essere importanti per qualche ragione astrusa” [3]. Questo ritratto ideale, ricalcato sulla propaganda rivoluzionaria ma inaspettatamente cool e anche molto istituzionale, rappresenta anche la maturità artistica di Shepard Fairey.
La sua è sempre stata un’arte politica, dagli sticker con Andre the Giant (che l’autore ha sempre definito “un esperimento di fenomenologia heideggeriana”) fino alle operazioni di street art più complesse e ambiziose. La differenza, in questo caso, e il salto qualitativo stanno nell’uscire definitivamente dal confine artistico e nel mettere l’arte al servizio dell’idea politica. Il poster di Shepard Fairey è semplicemente uno dei più belli ed efficaci mai realizzati. Era dai tempi di John Heartfield, molto probabilmente, che non si vedeva qualcosa del genere, e occorrerà analizzare attentamente questo aspetto, del tutto incongruo se paragonato a ciò che è successo finora eppure così conseguente rispetto a certi aspetti della cultura pop.
In una dimensione sicuramente meno epocale si colloca il dipinto di Ron English, Abraham Obama (2008) – anch’esso oggetto di una campagna di poster “warholiani” -, che a suo modo cattura efficacemente lo spirito dei tempi. Anche in questo caso, più di tanti autorevoli paragoni tra le due figure politiche, il mash-up visivo spiega il desiderio collettivo di un grande Presidente. Sarà autosuggestione, ma tant’è. Come accaduto per gli anni ‘30, l’artista si appropria di un altro periodo fondante per gli Stati Uniti e lo fonde con la contemporaneità e la spinta verso il futuro incarnata dal neo-presidente (all’epoca del quadro, ancora candidato). Ma prima che si affacciasse sulla scena, chi aveva ripensato a Lincoln?
Effettivamente, Obama sembra avere uno strano effetto sul tempo, sul passato lontano e recente, e sul futuro. Innanzitutto, è abbastanza incredibile l’obsolescenza improvvisa dell’epoca immediatamente alle nostre spalle (2000-08). Tutti i simboli culturali recenti che sembravano più solidi e duraturi appaiono oggi fuori moda: i Suv, Starbucks e Paris Hilton.
Certo, l’illusione che tutto sia avvenuto dall’oggi al domani – in una singola notte – è, appunto, un’illusione, una deformazione prospettica. Eppure, in qualche modo, non lo è. È la prima volta infatti che la nostra generazione sperimenta su di sé un evento “storico” (se si esclude la caduta del muro di Berlino, che però secondo Francis Fukuyama ha coinciso con la fine della storia). Non c’è che dire, è decisamente una bella sensazione. Un singolo momento e una singola figura condensano frustrazioni passate e aspettative future, concatenazioni fortuite e destini incrociati. Sembra la trama di Crash (e non è escluso che sia costruita nello stesso identico modo), ma come narrazione è impeccabile e trascinante.

Che impatto avrà tutto questo nell’immediato futuro? Nello specifico, che effetto potrà avere su un campo apparentemente distante e impermeabile come quello dell’arte contemporanea? Tanto per dirne una, proprio quello di ridurre questa distanza e questa impermeabilità rispetto al mondo reale, di liberarsi dai giochini di condominio e di ricominciare a pensare in grande, sulla scorta per esempio di uno Shepard Fairey (non certo un outsider nel mondo dell’arte).
E forse di guardare finalmente al mondo del social networking e del web 2.0, che tanta parte hanno avuto proprio nell’elezione di Obama, non per una questione modaiola ma per un’esigenza funzionale. La partecipazione e l’attivazione non sono gusci vuoti, ma concetti che delimitano il nuovo terreno con cui l’arte si deve confrontare, se non vuole diventare una questione sempre più marginale nella cultura contemporanea. E senza sentirsi un’ennesima volta minacciata nelle sue (vecchie) prerogative, ma accogliendo la sfida come un’opportunità storica.
Come canta Will.i.am, “mi sono svegliato questa mattina sentendomi tutto nuovo”.

[1] Giuliano da Empoli, Obama. La politica nell’era di Facebook, Marsilio, Venezia 2008, p. 80.
[2] Ivi, pp. 59-60.
[3] Cit. in William Booth, Obama’s On-the-Wall Endorsement, “Washington Post”, 18 maggio 2008, www.washingtonpost.com

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christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 55. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

Visualizza commenti

  • un bell'articolo dove si evidenzia che l'arte conferma essere nel tempo portatrice di cambiamenti politici dove la cultura in generale avvolge le nuove generazioni e cambia il modo di vedere le cose.

  • Christian Cagliandro, sei il Barack Obama della critica d'arte.Complimenti e sempre pensieri positivi!

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