29 gennaio 2016

I beni culturali? Sono materia di studio

 
Più c’è disoccupazione e più la formazione è un business florido. Ma che significa essere preparati alla gestione culturale? Ecco alcuni requisiti irrinunciabili

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Spesso si parla di patrimonio culturale. Molto spesso lo si fa con leggerezza. Quasi fosse l’unica parola disponibile per indicare l’insieme dei beni culturali (materiali ed immateriali). Non è così, o almeno non è per questo motivo che è stata scelta. La parola patrimonio significa letteralmente il “dovere del padre” ed indica quindi tutto ciò che il padre dovrebbe garantire ai propri figli. Si tratta quindi di una parola con delle implicazioni precise: patrimonio è ciò che va garantito, tutelato e gestito perché possa essere tramandato.
Abbandoniamo i beni culturali e parliamo di patrimonio privato: ogni “buon padre di famiglia” vorrebbe garantire ai propri eredi un livello dignitoso di esistenza, e per farlo amministra i propri beni, cercando di farlo nel migliore dei modi: chi possiede proprietà immobiliari cerca di tenerne alto il valore, attraverso riparazioni o restauri, evitando rimangano vuoti per lunghi periodi, e avvalendosi, quando necessario, di figure professionali in grado di aiutarlo in questo compito.L’Italia è uno dei Paesi con più alto tasso proprietario sugli immobili, quindi quasi ognuno di noi ha esperienza di ciò che questo significhi e comporti.
Parlando sempre di proprietà personali, risulta chiaro che il “buon padre di famiglia” facilita il futuro dei figli su due versanti: il primo è quello del patrimonio, l’altro è quello della possibilità, che offre ai propri figli, di poter gestire in futuro questo patrimonio.
Un momento dell'allestimento della mostra finale del Master della Luiss di Roma
Ora torniamo al patrimonio culturale, e, per facilità, al patrimonio tangibile: guardando allo stato attuale, non di rado (ed è un eufemismo) si ha come la percezione che tale patrimonio non risulti ben gestito, ma, allo stesso tempo, vedo moltissimi ragazzi che studiano, approfondiscono e si impegnano perché così riescano a gestire nel migliore dei modi i nostri interessi nazionali.Lo fanno con passione, entusiasmo, ma spesso cadono in una trappola formativa che non risponde alle reali esigenze del lavoro, e questo può inficiare le loro carriere. 
In periodi di alta disoccupazione, accade spesso che una delle “filiere produttive” più floride sia quella della Formazione. Anche qui il meccanismo è semplice: poche assunzioni significa maggior numero di non occupati, e questo significa che per poter ottenere la fiducia di un datore di lavoro bisogna offrire qualcosa in più rispetto agli altri. Questo qualcosa in più è spesso l’esperienza, ma in lunghi periodi di bassa occupazione, il vero quid diventa la formazione specialistica. Chiaramente l’inclinazione personale è determinante: ma è anche doveroso essere consapevoli che non tutte le specializzazioni offrono garanzia di impiego. Quindi, soprattutto dopo il corso di studi universitario, chi sceglie un master lo deve fare tenendo anche conto delle reali esigenze del “mercato”. Come fare?
Naba, Milano
Le esigenze sono due: intuire di quali professionalità avrà bisogno il “mercato” dei beni culturali, e differenziarsi quanto più possibile dagli altri “competitor”, guardando tutte le soluzioni che il mercato offre al fine di individuare una specializzazione “distintiva”. Guardando l’attuale offerta di master in Italia emerge come ci siano tanti corsi legati all’economia e alla gestione dei beni culturali, così come all’economia alla gestione del turismo o alla comunicazione dei beni culturali, o corsi legati all’architettura, al restauro e all’archeologia. Ci sono poi delle tematiche che appaiono con meno frequenza, e alle quali bisognerebbe guardare con attenzione: corsi di studio volti a formare registrar (IED Venezia), o a creare figure professionali ibride, come il biologo per i beni culturali (Roma 3). È anche da notare, infine, come nell’attuale offerta formativa siano pochi i corsi che inseriscono le nuove tecnologie: tra queste emerge un master in modellazione 3d (Palermo) e uno che si propone già dal titolo di inserire la tecnologia in un processo di valorizzazione e di gestione: Management – Promozione – Innovazioni Tecnologiche nella gestione dei beni culturali (Roma 3). 
Al di là dei corsi specifici, quello che emerge è un’Italia che si sta preparando a gestire i beni culturali, seguendo principi soprattutto di natura economica e gestionale, mostrando invece lacune sugli aspetti tecnico-specifici. Da un lato il basso tasso di master a vocazione puntuale, dall’altro la poca presenza di un segmento, quello tecnologico, che ha invece modificato in modo sostanziale il modo in cui si conservano, si valorizzano si comunicano e si fruiscono i beni culturali.
La sede dello IED di Venezia
L’Italia che vorrei è un’Italia in cui le competenze siano multiple, in cui a dirigere i lavori (e i musei) fossero persone che nella loro esperienza e nella loro formazione hanno avuto modo di confrontarsi con quanti più mondi possibili perché la cultura li copre in ogni caso tutti. Ovviamente non si può essere tuttologi, ci saranno sempre delle segmentazioni di mercato forti (ecco il caso della biologia applicata ai beni culturali) ma avere competenze nel pricing, così come nella comunicazione, comprendere i linguaggi dell’arte (dalla musica alla letteratura) e nel frattempo capire quali sono i meccanismi di innovazione tecnologica, capire ad esempio che innovazione non è una parola vuota, ma che si misura in modo molto puntuale, guardare con attenzione l’accountability per le strutture culturali e conoscere le filiere produttive per poter prendere ed apprendere da ogni ramo dell’attività umana, sono tutte caratteristiche che vorrei vedere in chi, in futuro, sarà chiamato ad intervenire sui beni culturali.
Non è fantascienza, è interesse personale (nazionale): si tratta di ciò che dobbiamo ancora imparare a trasformare in un Patrimonio degno di questo nome.
Alfonso Casalini

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