Nonostante i contraccolpi subiti dall’andamento negativo
dell’economia, il mercato dell’arte non sembra vedere intaccati la
considerazione e l’interesse come ambito d’investimento guadagnatosi negli anni
del boom, e che resta il vero valore da difendere da parte degli operatori.
Un recente rapporto condotto in tandem da Capgemini e
Merrill Lynch ha documentato che il 29,8% dei financial advisor considera ancor
oggi l’arte come il più redditizio tra i cosiddetti “passion investments”, che comprendono i beni di lusso
ma anche, ad esempio, le sponsorizzazioni nell’ambito dello sport. In Europa la
percentuale sale addirittura al 37,4%, a dimostrazione che il collezionismo non
è affatto scomparso. I risultati positivi delle case d’asta sembrano dire che
il brusco stop dello scorso anno fu innanzitutto il naturale atteggiamento attendista
di chi viene colto da una burrasca improvvisa. Una volta rischiarato, i
compratori sono tornati a mostrare fiducia.
Eppure basta spostarsi in casa Phillip’s de Pury per
assistere a tutt’altro scenario, in buona parte allineato al clima di
incertezza che ancora caratterizza galleristi e mercanti, specie sul fronte del
segmento del contemporaneo. Per la casa d’aste c’è da fare i conti con il
disastro londinese di giugno, quando la sessione di Contemporary Art ha
registrato il 47% di invenduto e un fatturato sotto i 6 milioni di dollari a
fronte di pre-stime comprese tra i 9 e i 13 milioni.
Ma passiamo alle fiere. Se da un lato ha superato le più
rosee previsioni quella di Basilea, dall’altro c’è da registrare anche lo
scarso successo delle fiere satellite, ad eccezione di Liste, che ha saputo
trasformarsi da antagonista a costola prediletta della Kunst Messe. Dopo anni
di grande espansione delle fiere (e delle biennali), il fenomeno sembra in
contrazione. A resistere sembrano destinate le grandi classiche che però, come
dimostra il cattivo andamento di Arco Madrid, non possono dormire sugli allori,
ma devono dimostrarsi attente a cogliere le dinamiche di un mercato oggi più
vasto e complesso.
Nei nuovi scenari, il segmento dell’arte emergente tarda a
reagire e sembra essere quello più in sofferenza. D’altro canto i tassi di
crescita maggiori, fin dagli anni ’90, si sono registrati in questo settore e
un processo di assestamento è quindi fisiologico. Ma non è da dimenticare che
il boom è stato un fenomeno economico prima che culturale.
Le speculazioni della nuova classe di collezionisti, i
nuovi maestri cinesi e orientali, i musei delle archistar nei Paesi arabi sono
segnali precisi che battezzano l’origine della fortunata stagione dell’arte e
del suo mercato. La stessa Phillip’s de Pury, dall’ottobre del 2008 è in
maggioranza proprietà di Mercury, la multinazionale russa operante nel settore
dei prodotti di lusso, cresciuta parallelamente alla nuova classe
imprenditoriale dello stato ex sovietico.
Non stupisca dunque che il recupero in atto si concentri
fortemente sull’arte storicizzata, sia essa antica, moderna o contemporanea.
Rarità, antichità, fama, curriculum, presenze in collezioni pubbliche di
prestigio, letteratura: siamo forse al cospetto di un ritorno ai valori
consolidati del passato in luogo del mero andamento di mercato.
È curioso: nell’età contemporanea che si misura con gli
effetti della globalizzazione, che mette al centro del dibattito i problemi
identitari, ambientali ed etici, le imprese puntano sempre più a misurare le
proprie performance secondo indicatori non-financial e a ricavare valore dagli
asset intangibili. Le collezioni d’impresa e le sponsorizzazioni di progetti
artistici nascono anche da queste esigenze.
Durante la cosiddetta golden age, il sistema dell’arte
internazionale (collezioni pubbliche comprese, che poi avrebbero pagato a caro
prezzo la crisi) si è totalmente piegato alle ragioni del mercato, dimenticandosi
di investire sul proprio consolidamento strutturale, anzi favorendo il consumo
e il continuo ricambio: nuovi artisti e nuove opere, nuove gallerie e nuovi
musei, nuovi curatori e nuovi critici. Con una scelta effimera si sono
legittimati il mercato e la sua domanda, trascurando il ruolo strategico dei
valori intangibili, potremmo dire non-financial, propri dell’opera d’arte.
La deflazione, ovvero il brusco e veloce declino dei
prezzi registrato soprattutto nel comparto dell’arte contemporanea, ha compromesso
irrimediabilmente un sistema che si sosteneva scommettendo sul continuo rialzo
dei prezzi. Proprio per questo l’aspetto più importante della ripresa del
mercato potrebbe essere non tanto il ripristino dei livelli di fatturato
pre-crisi, ma piuttosto il riassetto del comparto del contemporaneo.
alfredo sigolo
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 68. Te l’eri
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