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22
maggio 2014
Il banale nell’arte/2
Politica e opinioni
La banalità popola la nostra vita. E se l’arte si appiattisce su questa non diventa altrettanto banale? Il tema, già discusso nel passato, oggi si ripropone in una prospettiva diversa, visto che l’arte si propone essa stessa come una forma di realtà. Cerchiamo di capire il nuovo scenario con questo saggio, di cui vi proponiamo la seconda parte. Che si confronta con la difficoltà a definire che cosa sia l’arte e con il post modernismo. E va oltre
I modi con cui l’arte prende posizione nella realtà, intesa nella sua estensione massima, ivi compreso l’ambiente digitale, che naturalmente consegue da quello analogico determinando a sua volta effetti in quest’ultimo, sono tra loro molto differenti e altrettanto diversamente articolati.
Tanto per fare due esempi estremi, e anche geograficamente molto distanti, è possibile andare dalle sperimentazioni interattive di Art + Com (www.artcom.de/en/home/), un gruppo di artisti, designer e architetti di Berlino che realizza installazioni visivo-sonore che utilizzano le nuove tecnologie, al Mac/San (mac-san.blogspot.it/2012/04/macsan-museo-de-arte-contemporaneo-de.html), un progetto di arte pubblica sviluppato a Cuba, nella periferia de La Habana, dagli artisti Stefan Shankland, Candelario, Erik Göngrich e dalla curatrice Aurélie Sampeur. Sono solo due esempi dei molti possibili, che danno però l’esatta misura dell’estensione dell’arco di possibilità con cui l’arte contribuisce alla costruzione della realtà, e dove il banale com’è ovvio vi può trovare altrettanto ampio posto.
Quindi cosa è banale?
Direi che all’inevitabile domanda si può tentare di rispondere procedendo proprio sulla falsariga delle riflessioni di Baudrillard: nell’arte è banale tutto quello che ripete la realtà così com’è, non configurandosi come qualcosa di ontologicamente diverso e che propriamente si aggiunge alla stessa realtà.
Naturalmente la questione del banale e del rapporto tra arte e realtà ha visto riflessioni importanti nel passato. Tra queste le più interessanti rimangono senz’altro quelle di Arthur C. Danto, perlopiù raccolte nel suo famoso La trasfigurazione del banale (1981). Com’è noto, la riflessione di Danto su questo tema prese inizio dal suo altrettanto famoso articolo The Artwolrd del 1964, scritto dopo la visita alla mostra di Andy Warhol alla Stable Gallery di New York, quella con esposte le non meno famose Brillo Box. Negli anni a venire, Danto ragionò costantemente sul problema di cosa rendesse diversa l’opera di Warhol dalle scatole in vendita nei supermercati, arrivando a elaborare una teoria dell’arte che definì «essenzialista ed esternalista», e che trovò fondamento nella pratica sperimentale delle «coppie indiscernibili».
I dubbi maggiori sulla teoria di Danto erano (e sono) determinati dal concetto essenzialista, grazie al quale si stabiliva cosa sia permanentemente opera d’arte e cosa invece semplice oggetto reale, dove la prima godeva di una possibilità esternalista, cioè di una modalità di conoscenza extra percettiva determinata dall’intenzionalità dell’artista. Danto spiegava che le condizioni per attuare questa distinzione erano l’aboutness e l’embodiment e cioè il contemporaneo essere dell’opera d’arte a proposito di qualcosa insieme con l’incorporare, incarnare, un contenuto, che appunto l’artista esplicitava con la realizzazione dell’opera d’arte.
Uno dei punti cardini di questa riflessione è esplicitamente Platone e la questione della mimesi e della pericolosità che ne deriva, secondo lo stesso filosofo greco. Danto ragiona, in particolare nel primo capitolo de La trasfigurazione del banale (1.Opere d’arte e mere cose reali), sulla scorta delle accuse che Platone rivolge in generale a quelli che non riescono ad essere ed imitano, e in particolare su chi sceglierebbe l’apparenza invece della cosa reale, o sul perché qualcuno dovrebbe preferire un quadro di qualcuno e non lui in carne ossa, come anche sulle ragioni che porterebbero a fingere di essere qualcosa potendo essere la cosa reale, per giungere alla conclusione: «È possibile leggere l’intera storia dell’arte successiva come una replica a questa triplice accusa e immaginare che gli artisti abbiano aspirato a una sorta di promozione ontologica, consistente, naturalmente, nel superamento fra arte e realtà, nell’ascesa graduale sulla scala dell’essere». Subito dopo fa l’esempio del letto di Rauschenberg come di un letto appunto diverso da quello reale perché inutilizzabile.
Anche per Danto, dunque, il banale nell’arte era tutto ciò che in qualche modo non si differenziava dalla realtà così com’è, anche se, e nonostante l’esplicita necessità ontologica evidenziata, la questione rimaneva dentro la relazione, soggetta all’interpretazione, che intercorre tra rappresentazione e realtà e che aveva connotato tutta la storia dell’elaborazione dell’immagine, come anche quella della narrazione letteraria.
A questo proposito, Roland Barthes in un saggio dedicato a Diderot, Brecht, Ejzenstejn scritto nel 1973 e che potete leggere in inglese qui ebookbrowsee.net/r-barthes-diderot-brecht-eisenstein-pdf-d416660244, dice: «La rappresentazione non viene definita direttamente dall’imitazione. Anche se ci liberiamo dei concetti di ‘reale’, di ‘verosimile’ e di ‘copia’, ci sarà sempre la rappresentazione, finché un soggetto (autore, lettore, spettatore o voyeur) getterà lo sguardo verso un orizzonte su cui ritaglia la base di un triangolo, di cui il suo occhio (o la sua mente) costituisce il vertice».
Ma oggi ha ancora senso parlare di rappresentazione nell’arte? Non siamo invece di fronte ad un predominio dell’ontologico nell’elaborazione dell’opera d’arte? Non è questo ciò che sta accadendo in modo graduale e costante dall’inizio degli anni Novanta? E se è così, come in tutta evidenza è, non è del tutto cambiata la relazione tra arte e realtà, dove appunto la prima non fa più da specchio alla seconda, ma ne costituisce un elemento aggiunto e di cambiamento?
In questa prospettiva di certo il banale nell’arte è tutto ciò che non realizza questa aggiunta, mantenendo una modalità di ripetizione del reale sotto forma di oggetto, forma e immagine.
Nondimeno è banale tutto ciò che ripete un’opera d’arte del passato, e questo tanto in modo inconsapevole che per il verso di una pratica meramente citazionista.
Vuoi leggere la prima parte del saggio? Clicca qui:
Interessante. A mio parer il problema centrale è che l’opera, come la mostra, viene vista come momento formativo, didattico e di intrattenimento. Come insegnare ad una classe con i soli compiti in classe. E’ ovvio che i compiti in classe risultano banali.
Spesso mi sono scontrato con la Banalita’, fin quando essa stessa mi ha mostrato la Semplicita’ immediata, in base a quanto già noto in precedenza, dal mio punto di vista ognuno di noi ha la possibilita’ di scegliere se accomodarsi nell’ovvio del banale o rendere semplice ed unica l’espressione d’arte, dando punti di riflessione in una societa’ troppo presa dal Consumismo!