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Il cameriere di New York. Un editoriale
Politica e opinioni
Cari amici e lettori,
poche settimane fa sarebbe dovuto uscire, in occasione di miart, exibart 108. In quel numero ci sarebbe dovuto essere un editoriale che oggi voglio scrivere online. Se l’aveste trovato sulla carta, immagino, sarebbe stato molto diverso, e invece eccoci qui.
Inizio col dire che tutto mi pare tranne che sia andato tutto bene, specialmente guardando al piccolo orto dell’arte contemporanea italiana, passato di nuovo inosservato rispetto ai programmi di refill del MIBACT, dicastero che – evidentemente, anche pensando al turismo – immagina che la crisi avrà da passare nell’arco di qualche mese.
D’altronde, lo osserviamo quotidianamente, continuiamo a sorbirci le “soluzioni” di uno stato che si è dimostrato ben lontano dall’essere liberale e democratico.
Non ho la benché minima intenzione di far cambiare idea a chi é convinto che questa sia stata e sia l’unica strategia possibile, l’unica via per sopravvivere, l’unica strada percorribile e il “migliore governo” per fronteggiare questa “emergenza”. Come cittadini non abbiamo potuto esercitare nessun diritto, e nessuna di quelle tanto blaterate libertà che hanno accompagnato i comizi da social network e i post dei leoni da tastiera che, con il lockdown, si sono tramutati in paladini della virtù e del buon giudizio.
Lo scrivo oggi, giorno di vigilia di inizio della “Fase 2”, a bocce ferme e con settimane e settimane alle spalle di chiusura. Mesi in cui abbiamo visto ristrette le nostre libertà in nome di un pensiero unico che non ha contribuito ad altro che alimentare una fobia forsennata mascherata da buon senso. Quel grande buon senso che ha eliso il pensiero critico, e un’informazione degna di essere definita tale. D’altronde, in Italia, la libertà di stampa si colloca – secondo una ricerca di Reporters Sans Frontiers – al 41esimo posto nella classifica mondiale dopo Costa Rica, Portogallo, Jamaica, ma anche Spagna, Francia, Regno Unito…
Ma più che di “libertà” di stampa, però, parlerei di univocità: dai dibattiti televisivi con i medesimi ospiti che hanno attraversato reti e trasmissioni, fino all’esimio Dottor Burioni ospite fisso di Fabio Fazio, una joint venture che è costata anche un esposto da parte del Codacons alla Corte dei Conti, è mancato tutto quello che si potrebbe ricondurre ad una pluralismo di visioni. Non serve essere particolarmente scaltri per poter usare uno strumento prezioso come Google nel migliore dei modi possibili, ovvero per mettere a punto quello che anche l’ordine dei giornalisti italiani imporrebbe deontologicamente (il condizionale, qui, è davvero un eufemismo): la verifica delle fonti.
Peccato che, in questa “pandemia”, le fonti non allineate alla strategia del terrore siano state prontamente silenziate quando pubblicate su canali ufficiali come facebook e twitter – attenzione, “ufficiali” solo quando di interesse ai media dominanti – o, in un’altra opzione, completamente ignorate dalla platea della comunicazione o, ancora, derise e bollate come fake news per poi essere riabilitate nell’arco di poche ore. Altro che sdoppiamenti di personalità.
Non so in quanti se ne siano accorti, ma negli Stati Uniti si sta delineando una situazione che fa impallidire, e fa impallidire tutti i grandi difensori della “democrazia” contro la tirannide di Donald Trump. Avete sentito parlare di Obamagate? Che ne direste se Barack Obama, Nobel per la Pace e diversi conflitti innescati nel mondo durante i suoi due mandati, fosse accusato di uno dei reati più gravi del codice penale americano, alto tradimento allo stato, pianificato per ribaltare le sorti della Presidenza di Donald Trump (regolarmente eletto) falsificando documenti con la complicità anche dei servizi segreti italiani? Forse anche il mitico Jerry Saltz che ha passato 4 anni inanellando un post più violento dell’altro nei confronti di uno dei pochissimi presidenti a stelle e strisce che, per esempio, non ha innescato conflitti, magari si darebbe una calmata, e con lui tutta l’intellighenzia preoccupata. Di cosa? Giusto: Trump era colui che avrebbe dovuto portarci alla Terza Guerra Mondiale. Lo hanno titolato tutti i giornali del mondo, per 48 ore. Poi sulla questione è calato il vuoto pneumatico.
Mi si dirà che Donald Trump non ha fatto nulla per frenare i contagi negli Stati Uniti, che si è dimostrato incosciente e superficiale e mille altre amenità, ma ancora una volta – ripeto – non si stanno cercando proseliti o approvazione ma semplicemente tentare di decifrare l’osceno rumore di fondo quotidiano rovesciando la prospettiva.
Un peso, due misure
La vicenda dell’Obamagate potrebbe riempire non solo tutte le pagine dei giornali mondiali, ma anche tutti i salotti televisivi e le tribune politiche, come del resto fece il Russiagate che per giorni e giorni occupò la stampa globale con esperti e opinionisti che non parlavano di altro. Ora che le accuse sono tutte cadute, rivelando la vicenda un falso, nessuno ha dedicato nemmeno una riga alla smentita della vicenda.
Evidentemente nessuno – quando “il mostro” mostra un’altra faccia – vuole crederci. E infatti questa vicenda sta passando quasi in sordina sui media italiani, o alla bell’è meglio è bollata come l’ennesima vergognosa menzogna targata Donald J. Trump. Come se il Presidente degli Stati Uniti potesse agire in solitudine, come un cavallo pazzo a briglie sciolte. Certo. Meglio allora rassicurare l’opinione pubblica parlando di ritorno di pandemie, ascoltando esperti che ci dicono che dovremo veder morire i bambini per poi, miracolo, mutare versione nell’arco di un successivo passaggio televisivo. D’altronde però l’OMS sembra essere diventata la nuova sacra rota, per cui si dia la morte a tutti coloro che osano mettere in discussione questa strana organizzazione che non ha fatto altro che fare proclami per poi smentirli e viceversa in questi mesi, e al cui vertice azionistico sta un uomo che non è nemmeno un medico, che ha innumerevoli volte dichiarato di voler abbassare il numero della popolazione mondiale e ha un conflitto di interessi enorme con la causa dei vaccini.
Ahi, ahi, ahi…che guaio. Ahi, ahi, ahi quando la politica è talmente debole da non poter farsi dialettica e così pavida da affidarsi ai “tecnici”: quei grandi tecnici che non hanno imbroccato una soluzione giusta (vedasi le previsioni dell’Imperial College per tutte le ultime pandemie dal 2002 in poi), che hanno brancolato nel buio imponendo i diktat della tecno-scienza, della dittatura del “bene comune”. Dittatura, certo. Perché, avete visto altre forme di pensiero? No, perché gli intellettuali sono stati zitti o sono stati zittiti: persino Giorgio Agamben, l’idolo di Che cos’è il contemporaneo che tutto il mondo dell’arte globale ama citare, all’inizio della “pandemia” si é preso del coglione per i suoi elzeviri su Quodlibet. “Ma stia zitto e si vergogni, mica è un virologo”. Esprimere un pensiero discordante è davvero incendiario. Su questa questione sarebbe ben utile riflettere e il perché é presto detto: se anche l’arte contemporanea non esce dal limbo degli “esperti del settore” sarà piuttosto inutile tentare di trovare soluzioni generali e condivise. Credo, anche, che sarebbe forse più utile iniziare a pensare in termini di Ministero di Economia e delle Finanze, o del Lavoro, piuttosto che in materia di Beni Culturali, visto che da quelle parti continua a passare molto più il concetto di conservazione che non di produzione. E fare arte è un lavoro, no?
Ma torniamo di nuovo al presente. Che cosa droga a tal punto l’informazione pubblica dal non permettere l’aggallare di altre dimensioni di informazione? Come mai il fronte è stato compatto come non mai nell’esacerbare – in senso negativo, ovviamente – rispetto a un altro “comma” condannato dalla deontologia professionale dei giornalisti, ovvero l’innescare terrore pubblico e puntare il dito ai colpevoli immaginari anziché sostenere la posizione di “presunzione di innocenza”?
La “pandemia”, e continuo a usare i virgolettati per poter meglio “isolare” alcune fondamentali parole che mai avevamo visto materializzarsi così nitidamente nella vita reale prima d’ora, è diventata in men che non si dica uno slogan stagionale. Ed è diventato così opprimente, deprimente e così assolutamente “inequivocabile” che persino ad un bambino sarebbero sorti tremendi sospetti: com’è possibile che in questa narrazione non vi sia un altro punto di vista? Come è possibile che nessuno riesca a innescare un punto di domanda nella storia dominante? Com’è possibile che fino a pochi giorni fa la stampa globale si schierasse favorevole a qualsiasi vaccino possibile, e ora che – sempre lui, Donald Trump – ha annunciato l’arrivo di un farmaco nei prossimi mesi – la stampa tutta stia subendo una virata anti vaccinale? Non c’è da stupirsi, e facciamocene una ragione con un bell’esame di coscienza, se in diversi sondaggi la fiducia nei confronti dei media è crollata. Così come appare naturale (il sondaggio è di Tecnè Poll) che la fiduca degli italiani nei confronti dell’Europa, crollata di più di 20 punti, sia al 49 per cento. Ovvero la metà degli italiani vorrebbe levarsi l’euro di mezzo.
In queste settimane mi sono arrabbiato molto con i miei connazionali che hanno perpetrato il mito dell’italiano coglione che “Eh ma noi non siamo la Svezia; eh ma noi non siamo disciplinati; eh ma noi siamo evasori fiscali per cui la sanità fa schifo”. Qualcuno, lucidamente, è riuscito ad osservare cosa abbiamo fatto per sessanta e passa giorni? Siamo stati tappati in casa per “aiutare” il Paese. Ho ricevuto messaggi increduli dagli Stati Uniti: davvero voi italiani, così notoriamente senza freni, adesso siete tutti in fila a un metro di distanza? Ebbene sì. Dovevamo abbassare la curva di contagio dopo il picco. Oggi, su questo punto, la narrativa si è di nuovo spostata: nessuno deve più ammalarsi!
Ancora: se i bambini non infettano, perché non si riapre la scuola? Ah già, la ritrovata “notissima virologa” Greta Thunberg si è espressa su questo punto alla CNN, mietendo una pioggia di disapprovazione che ovviamente è stata bollata da vip e media come la reazione di “cani da guardia che schiumano di invidia”.
“Tutto sarà come prima, solo un po’ peggio”?
Poi non si è capito come mai i musei, posti dove nessuno tocca-mangia-beve nulla debbano essere considerati luoghi a rischio. E non si è capito perché nell’Italia del federalismo sbandierato si siano legati i polsi. Ah già, i “tecnici” hanno detto di fare così.
Se ancora qualcuno dubitasse dell’intelletto degli italiani (parlo della popolazione, non della classe politica) mi auguro possa presto ricredersi, o magari andarsene per quei lidi più felici e più organizzati che vengono sbandierati nei discorsi da bar (quando si poteva sedersi al bar, certo!).
Tornando a quello che scrivevo all’inizio di questo pezzo, rispetto agli orti dell’arte, immagino che le soluzioni siano un paio, non di più:
A- tornare come prima, e state tranquilli che è solo questione di pochissimo tempo, ma con meno soldi ancora e più rabbia, più brama di visibilità e attaccamento alle proprie povere cose (come ha scritto uno dei pochi autori lucidi di questo tempo, Michel Houellebecq, “tutto sarà come prima, solo un po’ peggio”)
B – Pensare di unire le forze e creare qualcosa di mai immaginato. Cosa dite? Ma-cosa-dice-questo-ma-non-vede-cosa-stiamo-facendo? Lo vedo, lo vedo. E infatti, come rivista d’arte contemporanea, lo sosteniamo quotidianamente.
Ma vedo anche, ancora e anche qui, una narrativa dominante: in Italia gli artisti fanno tanto ridere e si beccano 600 euro e “forza e coraggio, in bocca al lupo, bravi”. Immagino che su questo tutti saranno concordi nel dire che sia ora di cambiare prospettiva. No?
Voglio chiudere con un aneddoto, come si conviene, pensando a un’altra offerta “niente male” arrivata sempre in questi giorni, dall’alto: i single come il sottoscritto (nemmeno più la decenza di usare la parola libero o celibe) potranno usufruire di ben 150 euro di bonus vacanze (previa certificazione ISEE). A New York, la città di quel mostro di Donald Trump, quando ero molto giovane un cameriere a fine cena mi corse dietro: “Sir!! Sir!! Take the ticket train with this!!” mi urlò in faccia mentre mi ricacciava un dollaro in mano. Quel dollaro glielo avevo lasciato di mancia, non sapendo che di solito si usa mettere sul piatto almeno il 18-20 per cento del totale. Oggi vorrei che fossimo tutti quel cameriere, e indovinate quali sarebbero i clienti che dovremmo cacciare dal nostro ristorante?