IL CAPITALE INTELLETTUALE |

di - 23 Aprile 2009
A guardare in casa nostra però qualche dubbio viene. A nessuna galleria italiana, non le storiche, né le più ricche e neppure le più cool, può essere realmente ascritta una reale capacità di influenza e di imporre scelte al mercato internazionale. A conferma di ciò basti considerare come i nostri artisti contemporanei più quotati come Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft, cui potremmo aggiungere Rudolf Stingel e Francesco Vezzoli, Giuseppe Gabellone e Margherita Manzelli, Elisa Sighicelli o Luisa Lambri, pur essendo ancora rappresentati in Italia (almeno una parte di essi) sono di fatto controllati da gallerie straniere: Marian Goodman, Emmanuel Perrotin, Paula Cooper, Sadie Coles, Yvon Lambert, Greengrassi, Luhring Augustine, Gagosian.
Ciò dimostra da un lato l’impossibilità dei mercanti italiani di garantirsi l’esclusività dei nostri portabandiera nel momento esatto in cui questi acquistano popolarità oltrefrontiera. Dall’altro che, oltre certi limiti, la carriera dei singoli artisti si gioca su tavoli internazionali ai quali gli operatori italiani partecipano con ruoli da comprimari.
A margine val la pena di notare come tra gli artisti citati non ve ne sia uno che lavori nel campo della pittura, segno di quale scarso credito goda il Paese che è stato culla del Rinascimento nella ricerca su questo fronte, che pure rimane la quota parte più consistente delle transazioni che attengono il collezionismo (oltre il 75% del giro d’affari globale).
Qualche mese fa, un amico ben introdotto nell’ambiente dell’arte che conta mi girò una mail speditagli da un noto e influente gallerista milanese. Tra le righe di una discussione sui massimi sistemi vi si leggeva questa frase: “Le scelte, anche dei galleristi più intelligenti, famosi e attenti, non sono mai del tutto libere. Si vuol credere che lo siano ma alla fine non è così”.
Per associazione mi venne in mente allora il racconto della disavventura di un giovane artista quando, armato del suo bravo book, aveva tentato di presentare il suo lavoro al titolare di una importante galleria (sempre milanese), ricevendo un netto rifiuto anche solo per metter piede nello studio. “Mi spiace, noi non siamo una galleria che guarda i book”, questa la motivazione che all’epoca poteva aver ingenerato scoramento e rabbia nell’artista, ma almeno gli aveva evitato false illusioni. Probabilmente infatti quel diniego, che suonava come la dichiarazione di una non volontà soggettiva, nascondeva in fondo un’impotenza oggettiva.
Nell’ottobre scorso sull’”Observer”, il domenicale britannico del “Guardian”, Laura Cumming ha analizzato un interessante fenomeno che ha caratterizzato il sistema dell’arte negli ultimi dieci anni, ovvero la tendenza, di critici e curatori, di transitare dall’ambito pubblico a quello privato. Strano no? Chiunque sarebbe portato a pensare che un intellettuale consideri il museo e la collezione pubblica il coronamento e il massimo riconoscimento per la carriera.
Invece è accaduto che Andreas Leventis, già assistente curatrice alla Tate Britain, sia divenuta direttrice di Alison Jacques, Greg Hilty direttore della Lisson Gallery dopo aver lavorato per Hayward Gallery e Arts Council and London Arts, che la senior curator della Tate Modern Emma Dexter sia andata a dirigere le esposizioni alla Timothy Taylor Gallery, che Susan May sia divenuta la creative director di White Cube passando anch’essa dalla Tate Modern. Ma ci sono anche Gregor Muir direttore di Hauser & Wirth e in passato Kramlich curator alla Tate, Mark Francis, ex chief curator all’Andy Warhol Museum di Pittsburgh e oggi direttore delle gallerie Gagosian di Britannia Street, o Ben Tufnell, che da curatore della Tate Britain è divenuto curatore di Haunch of Venison e pertanto un ingranaggio della complessa macchina di François Pinault.
Laura Cumming ha definito “fuga di cervelli” questo processo che in realtà può invece essere inteso come un “ritorno di cervelli”. Ciò che avviene è infatti una sorta di riflusso: il sistema dell’arte primario investe nei giovani critici e curatori allevando capitali intellettuali, quindi li presta al pubblico, inducendone una sorta di mutazione che trasforma quei referenti intellettuali in opinion leader e trend-setter. A trasformazione avvenuta, il mercato li richiama a sé per riscuotere i frutti maturati dall’investimento su quel capitale intellettuale che, nel frattempo, è diventato spendibile in termini di prestigio e reputazione ma anche come strumento per influenzare, diremo sottotraccia, le politiche pubbliche.
A questo punto è evidente, per tornare alla domanda iniziale su chi detenga il potere e su come esso sia esercitato attraverso lobby e sinergie di cui i collezionisti più autorevoli e autoritari sono, evidentemente, attori protagonisti.

Certo è che la riflessione della Cumming fotografa una deriva negativa sullo scenario attuale, perché mina l’indipendenza della critica, piega le forze intellettuali migliori alle ragioni di mercato, infine compromette la libertà d’azione delle pubbliche collezioni. Ma ci fa anche riflettere sui motivi per cui il sistema nel nostro Paese non possa competere efficacemente a livello internazionale: penalizzato da fiscalità e diritto, deve infatti pagare anche i limiti di un apparato museale involuto e anacronistico, inadatto a diventare un interlocutore credibile e incapace pertanto di offrire alternative a un modello internazionale che pure evidenzia oggi i suoi limiti nella crisi che, non a caso, ha finito indiscriminatamente per colpire non solo il mercato ma l’industria culturale nel suo complesso.

alfredo sigolo


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 56. Te l’eri perso? Abbonati!

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Visualizza commenti

  • L'arte?:
    non abbiamo per caso accolto con favore, stupore e ammirazione, le dichiarazioni "geniali" e gli stravolgimenti politico-manageriale, di personaggi quali Mr.Duchamp o Mr. Warhol e company qualche decennio fa'....?,
    bene adesso teniamoci tutto il resto......

  • aggiungerei inoltre che il nostro "sistema culturale", come tutto il "sistema Italia" è diretto da gerontocrati che non hanno alcuna voglia nè di educare le nuove generazioni, nè tanto meno di lasciare ai giovani il posto che fisiologicamente dovrebbero cedere.

  • Bravo Alfredo!
    Ottimo inizio di una analisi che si deve continuare per uscire dalla stagnazione in cui versa l'arte Italiana ormai da troppo tempo.

  • Molto interessante l'analisi sulla "maturazione" avvenuta dei curatori prestati dal pubblico al privato a fini economici. Non mi sorprende. Mi piace che ci sia qualcuno che analizza, collega e non solo elenca nomi,spazi e persone. Pratica purtroppo sempre più frequente. Abbiamo bisogno di pensieri veri.

  • PENSO CHE SIA STATO SEMPRE COSI NEL MERCATO DI ARTE IN ITALIA, SI PENSI ALL ARTE POVERA E ALLA TRANSAVANGUARDIA..negli anni ottanta sempre grazie a bishofberger, goodman , maenz ecc..ebbe un riconoscimento internazionale
    ma la differenza sostanziale è che l'estero fattura .. l'italia no.. l'estero acquista per musei e fondazioni ..l'italia no..piu che lobby è l'arte di arrangiarsi.. quello che viene fuori è la punta di un iceberg , tutto il resto è sommerso..il tutto condito da un'informazione faziosa e pagata.

  • L'informazione ha delle colpe enormi...anche quella più in buona fede fa fatica ad andare oltre le solite narrazioni...questione di abitudine ormai

  • L'informazione, i critici, i curatori non hanno colpa, chi esce dal coro della cupola artistica è immediatamente escluso, isolato e presto dimenticato. Mai come oggi c'è stato nella storia il terrore di esprimersi sulla situazione artistica, altro che sistema Moggi, l'arte contemporanea è in mano ad un sistema camorristico.

  • Le colpe invece ci sono caro Bigfoot soprattutto di critici e curatori perchè tra essi c'è chi non si è adeguato con coraggio mantenendo comunque una sua dignità intellettuale ed anche una discreta visibilità.

  • Complimenti!
    finalmente si chiarisce il paradosso di un sistema di potere nell'arte che esclude e contesta le cosiddette gallerie commerciali
    per poi cedere ad esclusive logiche di mercato.
    In Italia non si guarda il lavoro dei giovani artisti ma il loro curriculum: se hai fatto tutte le mosse e sei passato dalle gallerie o fondazioni giuste nei tempi giusti puoi entrare nel tempio altrimenti sei fuori.
    E ci si dimentica che Bacon si occupava di arredamento e Schnabel faceva il meccanico.
    Qui sarebbe possibile?
    Andate dalla Sandretto a proporle il vostro book confidandole che intanto aggiustate marmitte e vediamo cosa succede...

  • l'articolo ha alcuni aspetti positivi ed altri discutibili: la manzelli è in verità uno dei piu grandi flop commerciali degli anni 2000 (a cui aggiungerei tuttofuoco - anche se in misura minore), entrambi made in guenzani. la sighicelli, reduce da una biennale, è pur sempre un'artista di gagosian... certo, se non lavorasse con lo squalo vedo aprirsi nulla piu di un sistema "tipo piuttura italiana".
    riguardo il capitale itellettuale, si, d'accordo: il fatto è che se non ce l'hai è anche il mercato che va a farsi benedire: vedi sempre guenzani, quasi tutti modesti i suoi italiani ( e non si pensi che pessoli sia conosciuto da qualcuno...) ma arienti è un astro per le giovani leve ormai da un paio di generazioni.
    perchè la pittura italiana non funziona all'estero: ma perchè non possimao mettere a fianco di tobias-rukhaberle-von plessen di piazza-petrus-bagini-cingolani: ma ci vuol molto a capirlo? vi pare che il peso intellettuale sia lo stesso? vi pare che bazan regga il peso di un decrazaut? eppure sono coetanei...o sbaglio, attendo commenti.

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