27 ottobre 2015

Il confronto tra passato e presente

 
La tendenza che si riscontra nell’arte attuale per cui si dà un futuro al classico e spessore al contemporaneo nasconde problemi non risolti. Vediamo di che si tratta

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È qualche tempo che vado riflettendo sulla natura e le conseguenze di una prassi che sta caratterizzando in modo sempre più significativo il display espositivo dell’arte contemporanea in Italia, e che si può riassumere semplicemente nell’esercizio di giustapposizione tra l’opera di un artista, o più artisti, di oggi o del passato recente, e quella di un maestro, o più, del passato antico. 
Naturalmente è facile comprendere le ragioni che hanno portato allo sviluppo di tale pratica nel nostro Paese, dotato com’è di un patrimonio artistico tanto straordinario a fronte di una scarsa, perlomeno, attenzione verso la produzione in atto.
L’idea, il classico uovo di Colombo, è stata dunque quella di sfruttare l’eccezionalità del nostro antico per creare attenzione sull’oggi; qualcuno dice anche viceversa, in modo per la verità molto meno convincente. 
In ogni caso la strategia è parsa immediatamente efficace per ottenere molti scopi, come direbbero i francesi d’un coup: rivitalizzare i musei d’arte antica dando insieme visibilità all’arte contemporanea. Ma non solo, tra i risultati includerei, infatti, anche la nascita di un modello espositivo senz’altro unico, un vero e proprio format curatoriale nazionale, che ha il non sottovalutabile pregio di una certa spettacolarità e di un prevedibile gradimento popolare. Proprio a questo proposito è però chiaro che il format induce anche un preciso viatico alla comprensione dell’arte del presente, ponendola in una qualche continuità di significato, ma soprattutto estetica, con quella del passato. Non esattamente una cosa secondaria nell’economia di senso dell’arte attuale, come della didattica che la riguarda.
Matt Collishaw, Black Mirror, foto Andrea Simi
Ciò di cui stiamo parlando è, ad esempio, e non viceversa, conoscere e comprendere Jeff Koons attraverso l’accostamento a Michelangelo, ma anche Jackson Pollock sempre posto al fianco del Buonarroti, o Matt Collishaw giustapposto al Caravaggio, solo per citare qualche caso di quanto accaduto negli ultimi tempi tra Firenze e Roma. Senza dimenticare le opere di Tintoretto esposte come prologo alla 54. Mostra della Biennale di Venezia del 2011 da Bice Curiger; oppure le mostre “Serial Classic” e “Portable Classic” alla Fondazione Prada di Milano e Venezia nel 2015, curate da Salvatore Settis insieme a Anna Anguissola e Davide Gasparotto, nelle quali pur non essendoci alcun confronto, è l’intenzione di dare un futuro al classico in uno dei sancta sanctorum dell’arte contemporanea in Italia a confermare l’idea di continuità tra l’arte del passato e quella del presente. Si consideri che nello stesso periodo sempre a Venezia, ma nelle Gallerie dell’Accademia, si poteva visitare la mostra di Mario Merz curata da Bartolomeo Pietromarchi. Un significativo scambio di contenitori e naturalmente di verso fruitivo.
Tomaso Montanari in un suo recente articolo su “la Repubblica” dal titolo Il grande gioco dei confronti con il passato (11 ottobre 2015), scrive: «Non si tratta di attualizzare il passato o legittimare il presente, piuttosto di trovare antidoti efficaci all’assedio ossessivo e bloccante dell’attualità: è come – ha scritto Giorgio Agamben – “se quell’invisibile luce che è il buio del presente proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora”».
affaello Sanzio, Madonna del baldacchino 1506/1508
Il brano citato è tratto dal noto Che cos’è il contemporaneo (Nottetempo, 2008), un testo che Agamben scrisse nel 2006 come introduzione al corso di Filosofia Teoretica della Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia. Le sue riflessioni prendevano le mosse dal concetto di “inattualità”, o “intempestività”, che Friedrich Nietzsche trattò nella seconda delle sue Considerazioni inattuali (Unzeitgemässe Betrachtungen,1873-1876) dal titolo Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Agamben: «Nietzsche situa, cioè, la sua pretesa di ‘attualità’, la sua ‘contemporaneità’ rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo». 
Ma torniamo a Montanari e all’idea che sia necessario trovare antidoti all’assedio ossessivo e bloccante dell’attualità, rintracciabili, deduco dal suo poggiare sui ragionamenti di Agamben, proprio nella capacità dell’antico di rendere più visibile quella sfasatura e quindi l’inattualità dell’attuale, o viceversa; ma anche, un buio che diviene meno fitto in conseguenza alla capacità rischiaratrice del passato che finisce sotto l’ombra del presente.
Ci sono diverse cose e alcune conseguenze deducibili da queste suggestive argomentazioni, sulle quali credo valga la pena riflettere. La prima è naturalmente l’accento negativo che si avverte sul tema del presente e dell’attualità. Per meglio dire, la produzione artistica del nostro tempo risulta inficiata dalla stessa richiesta di attualità, vero e proprio imperativo, alla quale corrisponde a prescindere, e che è la causa della sua stessa incapacità a rilevare la vera natura del presente in cui siamo. 
Rappresentazione del cosmo secondo la teoria eliocentrica. Incisione tratta da Andreas Cellarius (1596-1665), Harmonia Macrocosmica, Amsterdam, 1660
In effetti, davanti alle molte cose poco comprensibili e gratuite proposte dall’arte in atto, si deve ammettere che affermazioni del genere appaiono senz’altro giustificate. Viviamo un’epoca in cui la deregolamentazione estetica dell’arte, e non solo, di fianco ad una dittatura pressoché assoluta del mercato, pone tali difficoltà e molteplicità interpretative, non tutte propriamente ispirate alla ricerca della verità, da suscitare spesso più di un dubbio sull’autenticità e sulla consapevolezza di gesti, manufatti, assemblaggi vari e immagini. 
Ma tutto ciò giustifica un’esigenza di semplificazione? Che in fondo è quella per la quale si opta tentando di mostrare una condizione di sostanziale unità e continuità dell’arte nel tempo. La tesi sottesa alla giustapposizione è infatti quella che sia possibile trasferire la comprensione, che diamo per acquisita, dell’opera di Michelangelo a quella ad esempio di Koons. Ma è un’operazione gnoseologicamente corretta, nonché culturalmente lungimirante? 
Direi proprio di no e per molteplici ragioni, che non riguardano solo la diversità di quello che oggi riconosciamo come opera d’arte rispetto al passato e che ha causato un’evoluzione piuttosto articolata del concetto stesso di arte, ma anche in conseguenza del ruolo che l’arte occupa oggi nel nostro contesto sociale, politico, economico ed estetico-culturale. Un ruolo evidentemente molto diverso da quello che l’arte ha occupato nella cultura europea occidentale per diversi secoli. Una diversità, e certo anche una complessità, che possiede già una storia, e non così breve, e che è il passato sul quale, volenti o nolenti, noi oggi poggiamo direttamente i piedi.
Così dobbiamo cominciare con il ricordare che Marcel Duchamp nel 1913, 102 anni fa, si domandava: «Si possono fare opere che non siano opere ‘d’arte’?». E che dire di Paul Valéry che ne La conquête de l’ubiquité del 1928, 87 anni fa, affermava: «C’è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte»? Riflessione che Walter Benjamin nel 1936, 79 anni fa, scelse come incipit introduttivo del suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Theaster Gates - My Back, My Wheel, and My Will - 2013
O ancora, come e dove collocare i ragionamenti di Theodor W. Adorno, che nel primo capitolo della sua Teoria Estetica, apparsa postuma nel 1970, 45 anni fa, intitolato Arte, società, estetica, scriveva: «La perduta ovvietà dell’arte. È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto ad esistere»?
Davvero pensiamo che sia possibile ricondurre la complessità di queste riflessioni ad esempio alle prime frasi del Proemio de Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti di Giorgio Vasari, apparso in prima edizione a Firenze nel 1550, 465 anni fa: “Solevano gli spiriti egregii in tutte le azzioni loro, per uno acceso desiderio di gloria, non perdonare ad alcuna fatica, quantunche gravissima, per condurre le opere loro a quella perfezzione che le rendesse stupende e maravigliose a tutto il mondo; né la bassa fortuna di molti poteva ritardare i loro sforzi del pervenire a’ sommi gradi, sì per vivere onorati e sì per lasciare ne’ tempi avenire eterna fama d’ogni rara loro eccelenza”?
Quale ricerca, studio scientifico, o anche dimostrazione divulgativa, terrebbe sullo stesso piano la teoria eliocentrica di Niccolò Copernico con quella, che so, del big bang di Edwin Hubble?
Oppure dobbiamo intendere e ammettere, in piena era digitale, che non solo ci sia ancora una divisione tra cultura scientifica e umanistica (Charles P. Snow, Le due culture, 1959), ma che persino l’evoluzione del pensiero e della conoscenza sia plausibile e in atto per la prima ma non per la seconda?
Quindi la domanda conclusiva è: quale sarebbe il risultato di tale prassi se giustapponessimo, che so, l’opera di Raffaello Sanzio con quella di Theaster Gates, o quella di Wilfredo Prieto con quella di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai dettoil Masaccio, o ancora Enrico Castellani al fianco di Donato di Niccolò di Betto Bardi, noto come Donatello?
Raffaele Gavarro

2 Commenti

  1. Alla domanda finale, rispondo così: dovremmo formare generazioni pronte al continuo confronto fra passato e presente. Loro già lo sanno fare, ma è necessario dare loro gli strumenti necessari per creare parallelismi e confronti.
    Giorgia Coeli, educatore museale e docente

  2. Oramai si sta facendo un poco di confusione, quello che continuiamo a chiamare arte oggi non è più la stessa cosa di cosa che era fino alla fine dell’Ottocento.

    In questi ultimi venti anni è nata l’industria dell’arte che grazie ad un mercato diffuso ha creato prodotti proposti come opere d’arte, il fatto stesso che non sia un artista ma degli operai pagati per fare l’opera cambia il senso del prodotto stesso, e fare paragoni con le botteghe del passato è una presa in giro.

    Poi che i così detti “artisti” producano di tutto basta che si venda fa capire che non conta l’opera ma il brand etc.. etc…

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