IL CURATORE COME CURATORE |

di - 18 Giugno 2007

“Pensa con i sensi – senti con la mente si fonda sulla convinzione che l’arte sia oggi, e sia sempre stata, il mezzo tramite cui gli esseri umani prendono coscienza del proprio essere in tutta la sua complessità.” [1]
(Robert Storr)

S’è iniziato nel dicembre 2005 col simposio Modernità molteplici e Salon globale: dove i mondi dell’arte si incontrano. Fra incontri e conferenze, s’è giunti al ciclo di lezioni allo Iuav, A Fool’s Errand, e all’intervento Between the factory and the garden, nell’ambito dei Sopralluoghi fiorentini [2]. In quest’ultima occasione, Robert Storr –13° nella Power List di “ArtReview” e primo direttore statunitense della Biennale di Venezia– ha esposto in maniera chiara e concisa la propria idea di curatela. Finalità: permettere al pubblico di recepire attivamente il dialogo instauratosi fra opere, artisti e curatore. Diventare così uno degli interlocutori, onori e oneri inclusi. Di contro al tematismo imperante (eventualmente coniugato in forma di “sociologismo”, come sintetizza Bonami [3]), principale strumento della dittatura curatoriale, Storr propone un’arte nella quale l’opera parla da sé e di sé, anche e soprattutto confrontandosi con le omologhe che la circondano. Dunque, il dialogo come antidoto all’autoreferenzialità, ma altresì a garanzia dell’inconcludenza ermeneutica. Perché permarrà sempre un margine di rigorosa vaghezza interpreta tiva. Tanto più nell’arte contemporanea, il cui carattere di novità induce pavloviani tentativi di categorizzazione, votati all’insuccesso ma necessari, per non lasciarsi investire passivamente da quella stessa novità. Se il visitatore accetta di confrontarsi con tale disagevole situazione –le mostre hanno da essere “disturbanti”, non “carine”– il compito del curatore consiste nel “ricompensarne” l’attenzione, scegliendo opere adatte allo scopo, che non sono necessariamente le “migliori”. Il ruolo dell’exhibition-maker tende allora ad assomigliare a quello di un regista o, meglio, di un editor [4].
Il caso del pubblico di quella “grande dame” ch’è la Biennale di Venezia accentua alcune caratteristiche di quest’impostazione. La Biennale nasce infatti come fenomeno di massa, ha una “funzione democratica”, non è rivolta a collezionisti e addetti ai lavori. Si deve quindi evitare di allestire una mostra che paia una collezione museale, così come occorre svincolarsi dalle pressioni di chi richiede un’“Onu dell’arte” –Storr critica in generale un’idea di appartenenza che fa capo a una superata concezione dello Stato-nazione, e d’altro canto sottolinea come l’esistenza dei padiglioni nazionali renda irricevibile la richiesta [5].
La mostra internazionale dev’essere in sostanza visibile. Perciò Storr si è posto problemi di ordine assai pratico, come il rapporto fra tempo della visita, della fruizione e della realizzazione dell’opera [6]. L’equilibrio al quale ha lavorato per tre anni vuole bilanciarsi fra il polo della noia e quello dell’entertainment. E uno dei giusti mezzi risiede nell’“accattivante”, per come può esserlo un’opera dell’amato Richter [7]. Non si tratta tuttavia d’un inganno aracnideo, volto a porre brutalmente lo spettatore di fronte a interrogativi sconvolgenti dopo averlo circuito.

Piuttosto, Storr propone degli stimoli –razionali e sensoriali, qui sta il significato del titolo– che, parafrasando l’ABC della lettura di Ezra Pound, conducano a coniugare l’ambizione dell’artista con quella dello spettatore. Se si dà tale unione, non è prevedibile cosa succeda, ma si può star certi che qualcosa accadrà.
E qualcosa già è successo. Si diceva del padiglione africano, senza dimenticare il Leone alla carriera a Malik Sidibé. Gesti che s’inseriscono in una inesausta attenzione che Storr dedica alla rilettura e alla ricontestualizzazione della storia dell’arte. In questo senso vanno letti gli interventi per mostre come Masters of American Comics o Eye Infection, che hanno indagato il labile confine tra underground e mainstream, e soprattutto i meccanismi della sussunzione.
Ma si tratta del riassorbimento in una storia dell’arte che tende inesorabilmente a pluralizzarsi. Qui sta il cuore della critica sia al modernismo “conservatore” à la Greenberg sia al postmodernismo, che “negli Stati Uniti […] significa ciò che viene dopo il modernismo per come Greenberg lo definì” [8] Doppio strale volto a salvaguardare “lo sviluppo simultaneo di molti Modernismi, ognuno con la propria storia e preistoria” [9]. E le mostre Making Choices: 1929, 1939, 1948, 1955 e Modern Art Despite Modernism stanno a dimostrare l’inveterato impegno di Storr in questa direzione: la dimostrazione che il Modernismo è il frutto d’una mera canonizzazione.

Un dubbio resta. Che la commistione di pensiero e sensazioni, così come di grottesco e sublime in occasione della Biennale di Santa Fe, “sospenda solo temporaneamente il sistema vigente. Che sia un pantagruelismo domenicale” [10]. Rischiamo però di entrare nel periglioso ambito delle pre-visioni (questo pezzo è stato scritto prima dell’inaugurazione della kermesse lagunare). Meglio tornare all’invito di Storr: “Meno teoria e più azione, inclusi insuccessi e digressioni” [11]. Buona visione.

marco enrico giacomelli

[1] Pensa con i sensi – senti con la mente, Marsilio, Venezia 2007.
[2] I video delle conferenze sono visibili su Undo.net (A Fool’s Errand) ed Exibart.tv (Between the factory and the garden).
[3] Pensa con i sensi – senti con la mente, “Domus”, maggio 2007.
[4] I paragoni sono proposti da Storr in Show and Tell, in Paula Manicola (ed.), What Makes a Great Exhibition?, Philadelphia Exhibitions Initiative-Reaktion Books, Philadelphia-London 2006. Per approfondire la pragmatica curatoriale di Storr si veda pure How we do what we do. And how we don’t, in Paula Manicola (ed.), Curating Now, Philadelphia Exhibitions Initiative, Philadelphia 2001.
[5] Lo stesso Storr ha contribuito alla loro espansione, allestendo le mostre di arte turca e africana, nonché con la progettazione –rimasta tale per problemi organizzativi– di una rassegna d’arte indiana all’interno della Biennale.
[6] Recensendo in maniera piuttosto positiva la Biennale di Szeemann del 2001, Storr non si risparmia una certa ironia: “Talvolta sembrava di essere in un gigantesco multiplex” (Groans of Venice, “ArtForum”, settembre 2001).
[7] Cfr. Gerhard Richter: October 18, 1977, MoMA-Abrams, New York 2000.
[8] Clement Greenbert: A Life, “Art Journal”, primavera 1999.
[9] E ancora: “Non credo nel post-Modernismo come categoria a sé. Non penso che il Modernismo sia finito” (in Bruce Fergusson, The accidental curator. Interview with Robert Storr, “ArtForum”, Sublimegrottesco, “Exibart.onpaper”, marzo-aprile 2005. Cfr. Robert Storr, Disparities and Deformations:Our Grotesque, Site, Santa Fe 2004.
[11] Fergusson, cit.

[exibart]



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