Notizia bomba, che da qualche giorno rimbalza dai giornali a internet: un gruppo di Paesi arabi taglia i ponti, diplomatici e commerciali (per ora i voli), con il Qatar. L’accusa è il finanziamento del terrorismo. Effetto visita Trump in Arabia Saudita, altro Paese non proprio limpido in questo senso o colpo di reni di una fetta del mondo arabo che rimarca la distanza dall’Iran, ritenuto il maggior colpevole quanto a collusione con il terrorismo? Come sia, è una notizia che in realtà svela qualcosa che si sapeva da tempo. Che il più piccolo degli Stati che si affacciano sul Golfo Arabo – anni fa indietro rispetto al prepotente sviluppo di Dubai ma che, grazie alla scoperta del gas, ha recuperato in fretta il ritardo – grande quanto il nostro Abbruzzo ma con un Pil pro capite di 100mila dollari all’anno, secondo solo a Lussemburgo, che si è rifiutato orgogliosamente (?) di far parte dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, che questo potentissimo statarello, si diceva, intrattenesse rapporti poco trasparenti con alcune organizzazioni terroristiche, tipo Al Qaeda e Isis, era cosa piuttosto nota. Fatto che però fino ad oggi non aveva turbato le relazioni internazionali e non ne aveva messo in dubbio la promozione a meta culturale di primo piano.
Di che parlo? Del fatto che fino all’editto di oggi (ma chissà, magari la storia continuerà allegramente), oltre a imprenditori e finanzieri d’alto bordo, in Qatar ci sono passati i più grandi dealers, galleristi, direttori di musei e curatori del mondo, tutti attratti dalle meraviglie, contemporanee e non solo, tirate su in breve tempo dagli sceicchi del piccolo Emirato: il Mathaf: Museo Arabo di Arte Moderna, l’exhibition space Al Riwaq, il Museo Nazionale progettato da Jean Nouvel e quello di Arte Islamica disegnato da I. M. Pei, il museo della Fotografia, la Biblioteca Nazionale pensata da Rem Koolhaas, solo per restare nel campo culturale.
Luoghi costati, miliardo in più miliardo in meno – tenetevi forte – 25 miliardi di dollari e che negli anni, tra altre scintille, hanno ospitato mostre di Damien Hirst, Adel Abdessemed e Cai Guo-Quiang, conferenze di Jeff Koons, progetti di grandi installazioni di Richard Serra, altri progetti in collaborazione con Fondazione Prada e dove a un certo punto sono comparsi anche I giocatori di carte di Cézanne, acquisito dalla famiglia reale Al Thani per 250 milioni di dollari.
Tutto possibile per uno Stato che spende per la cultura più di un miliardo di dollari l’anno, che nel 2012 si è aggiudicato il primo posto tra i buyers dell’arte e che quindi, grazie a queste luccicanti scie di denaro che qualunque evento lì organizzato si porta dietro, attrae operatori del settore da ogni parte del mondo.
Una storia unica, figlia del gas e della comunicazione. Un boccone ghiottissimo per i pungenti appetiti culturali.
Ora, che il mondo dell’arte, al contrario di quanto possa sembrare nelle sue frequenti esibizioni muscolari, sia in realtà un mondo anche fragile e per certi versi facilmente ricattabile, nel senso che quando girano dollari o pretrodollari ci si fanno molti meno scrupoli ad accomodarsi a qualunque tipo di mensa, non è una novità. Ma che da Obrist in giù tutti si mettessero in fila ad omaggiare lo sceicco di turno, facendo finta di non sapere (o non vedere) che una società non secolarizzata, ma anzi radicalmente confessionale, scopre l’arte contemporanea per darsi una parvenza uptodate e, oltre che per intrattenere al meglio il pubblico dei Mondiali di calcio del 2022 (oggi messi in forse ), la usa come hanno fatto e fanno tanti ricchi in altre parti del mondo, per accreditarsi agli occhi del mondo che conta – per la mostra di Hirst nel 2013 il New York Times stilò una sfilza di partecipanti eccellenti, tra gli altri: Jeffrey Deitch, David Zwirner, Alberto Mugrabi e Sir Nicholas Serota – non doveva essere difficile da intuire. E poi, ogni tanto, un po’ di schiena dritta no?
E invece si è fatto finta di niente. Pecunia non olet è un jingle sempre attuale. Nonostante alcuni segnali strani fossero arrivati. Gli acquisti delle opere nelle grandi aste o in transazioni private, che hanno sbancato il mercato dell’arte e messo nell’angolo non tanto i collezionisti ma gli Art Funds delle grandi banche, per esempio. S’è appena detto del Cézanne pagato 250 milioni di dollari e che per un po’ di tempo è stato l’acquisto per un pezzo d’arte moderna più alto di sempre. Ma a battere il record è stata di nuovo la famiglia reale del Qatar, quando nel 2015 ha acquistato per 300 milioni di dollari l’olio di Gauguin intitolato Quando ti sposi? Cézanne, Gauguin arrivati dopo altre eccellentissime acquisizioni: il White Center (Yellow, Pink and Lavender on Rose) di Rothko accaparrato per 70 milioni di dollari e, a scendere, The Men in Her Life di Warhol per oltre 63 milioni, Lullaby Spring di Hirst per più di 20 milioni, la collezione di fotografia di Werner Bokelberg (con Man Ray e Stieglitz dentro) per 15 milioni, la collezione Berri, con un gruppo di nove opere di Fontana, Serra, Ryman, Reinhardt e Morandi del valore di 50 milioni di dollari promessa al Pompidou. Ma, appunto, promessa. Che fine hanno fatto queste opere? Dove stanno? Non nei musei d’arte islamica o nella collezione del Mathaf. Come mai non si vedono? Le ipotesi peggiori suggeriscono che potrebbero essere usate come merce di scambio o di ricatto in scenari lievemente apocalittici. Fatto sta che non se ne sa più niente e pensare che la notizia degli acquisti siano un precedente di fake news è un po’ improbabile.
Tornando a noi, vero è che il denaro è sexy e che, al di là di questo, l’arte ne ha bisogno e l’ha sempre fiutato e seguito. Però, di fronte ai fatti che rischiano di cambiare la nostra vita in Occidente, di fronte al terrorismo, forse è il caso di smettere di corteggiare i soldi e il Paese dei facili balocchi da cui arrivano.
Adriana Polveroni