IL FUTURISMO CHE CI ASPETTA |

di - 29 Gennaio 2009
Diciamolo subito. Siamo molto preoccupati. Già le poche notizie che trapelano sembrano confermare le mie previsioni dell’anno scorso, quando affermavo che piuttosto del centenario si celebrerà il funerale, del Futurismo.
E iniziamo dall’estero, dalla Francia, dove, si è sempre detto, Marinetti ha lanciato il suo manifesto, il 20 febbraio 1909. In realtà, come ho scritto qualche tempo fa (“Il Giornale”, 7 aprile 2008), non è propriamente così, in quanto il Manifesto era già stato pubblicato in Italia. Ma a parte questo, la Francia “ci celebrerà”: o almeno così pensava un amico-collega che ho dovuto deludere subito a riguardo della mostra Il Futurismo a Parigi, curata da Didier Ottinger, che il Centre Pompidou ha inaugurato a ottobre. Basta leggere i comunicati stampa, con la preview della mostra, e il tutto assume ben altra connotazione, e cioè quella dell’ennesima dimostrazione di sciovinismo francese.
Come si sa, cubisti e futuristi incrociarono le corna, come i cervi nel film Bambi, e la polemica se il Futurismo aveva o no copiato il Cubismo è andata avanti a lungo. Senza entrare nel merito, diciamo solo che il Futurismo andò ben “oltre” la statica visione del Cubismo, introducendovi la velocità, e la simultaneità. Ma soprattutto il Futurismo non fu “solo” un movimento pittorico (come il Cubismo, che fra l’altro non fu nemmeno un “movimento”), ma un evento di natura globalizzante nelle arti e nella società. Detto questo, passiamo alla mostra parigina, il cui “cuore” poggia su piedi d’argilla. Infatti, come si fa a voler celebrare il centenario di un movimento che ha influenzato molte avanguardie del Novecento andando a riproporre la “limitatezza” di una piccola mostra che i futuristi fecero a Parigi nel 1912, in una galleria privata, la Bernheim Jeune? Si tratta di una scelta, forse, di puro spettacolo, ma certo criticamente inconsistente, perché del Futurismo mostra solo i primi tre anni di vita. Consideriamo che in tale mostra quel genio che fu Balla, che forse è il più grande di tutti, anche di Boccioni (e la recente mostra milanese l’ha ulteriormente dimostrato), se ci sarà, avrà un ruolo da comparsa. Mancheranno, perché del 1913-15, tutte le sue ricerche sulla velocità e sul dinamismo astratto. E scusate se è poco.

Quindi, se qualcuno voleva dare un’idea “dimessa” o “parziale” del Futurismo, questa mostra ne è il manifesto programmatico. Se non bastasse, assieme alle opere di quella mostra del 1912 vi sarà una scelta di opere cubiste: dovendo “per forza” celebrare il Futurismo si è pensato bene di “annacquarlo” un po’. In ogni caso, per essere sicuri che i futuristi non fossero troppo in primo piano, sono stati “affiancati” pure da un gruppo di futuristi rossi (pardon, russi). Certo, non vi è dubbio che alla fine, tra Picasso, Braque, Boccioni, Carrà, e la Rozanova, ne verrà fuori una mostra ruffiana che per il popolino delle code museali sarà una gran cosa. E sarà pure “venduta” come un’accorta “lettura trasversale”. Ma una mostra per il centenario del Futurismo dovrebbe essere un’altra cosa, cioè un progetto scientifico di respiro più vasto, e una lettura più profonda.
Già i critici-politicizzati italiani sono andati avanti per decenni nel dopoguerra (e qualcuno è ancora su quelle posizioni) affermando che il Futurismo era morto nel 1915-16, cioè con la morte di Boccioni e Sant’Elia, e le “fughe” di Carrà e Severini. Ma ora, per il centenario, andare addirittura a chiudere al 1912 è un’idea che non ha alcun fondamento storico.
Il Pompidou, volendo essere veramente sciovinista, avrebbe dovuto fare l’opposto, e cioè fare una mostra a tutto tondo del Futurismo, dal 1909 al 1944, anno della morte di Marinetti, in ciò dimostrando di essere più “aperto” di certa critica italiana. Non fosse altro per l’evidenza, ormai plateale, che i primi futuristi furono “solo” pittori e scultori, mentre quelli che non dovrebbero “esistere” (dal 1915 in poi) portarono veramente l’arte nella vita, intervenendo a tutto campo: nella pubblicità, nell’arredo, nell’architettura, nella moda, nella tipografia, nell’arte decorativa, nel teatro ecc.
Tra l’altro, gran parte della stampa italiana ha condiviso questo mio giudizio, in sostanza bocciando in pieno la mostra.
Ora, se i francesi, a casa loro, possono fare quello che vogliono, venendo a casa nostra siamo quasi al comico, se non al tragi-comico.

Alle Scuderie del Quirinale, pensando probabilmente che i critici italiani del Futurismo siano tutti ignoranti (o che forse non ve ne siano), hanno pensato bene di “importare” la mostra del Pompidou, che quindi diverrà la mostra sul centenario del Futurismo di Roma. Come si sa, e come si diceva una volta, “Viene da Parigi, e quindi fa molto chic”. Sì, però potrebbe fare anche molto choc.
Anche qui, la mostra andrà benissimo: ci saranno le solite code, i quadri piaceranno (perché oggettivamente belli e importanti) e tutti i salmi finiranno in gloria. Sull’operazione d’immagine e commerciale non c’è niente da dire. Ma è sull’operazione culturale che c’è da preoccuparsi. Ma come, non si poteva “produrre” una mostra autonoma? Mancavano le risorse umane? Mancava il know-how? Ci dobbiamo forse far dare una lezione (viziata) dai francesi sulle cose di casa nostra? Sul più importante movimento d’avanguardia italiana del Novecento? Dobbiamo ritornare indietro di cent’anni, quando Parigi era il centro dell’arte mondiale? Insomma, a forza di sfinirci con mostre sugli impressionisti (rispetto ai quali i nostri macchiaioli e i divisionisti non hanno nulla di meno) siamo forse divenuti franco-dipendenti? È come se a Parigi importassero una mostra sul Cubismo fatta in Italia: bella, ma politicamente “scorretta” o “criticamente zoppa”. Non accadrà mai. Solo noi siamo così furbi, per non dire altro.
Qualche dubbio, però, dev’essere poi venuto a galla, dal momento che Ester Coen, esperta di Boccioni, è stata chiamata a fare un po’ di make-up, vale a dire d’integrazioni qualitative. E se bisogna fare delle integrazioni, questo dice tutto sul progetto scientifico della mostra francese. Ester Coen è una “macchina da guerra”, e avrebbe potuto fare benissimo la mostra da sola, ex novo. Ma, tant’è. Bisognerà solo augurarle buon lavoro.
Infine, per la serie “giochiamo a domino”, la mostra del Pompidou se ne volerà poi a Londra, alla Tate Modern, dove spiegherà anche agli inglesi cosa “non è” il Futurismo.
God save the Futurism!

Ora voliamo invece a Milano, perché, come si sa, il Futurismo, da un punto di vista anagrafico, è nato lì. La famosa casa rossa dove i futuri futuristi “avevano vegliato tutta la notte” è lì, sull’angolo di Corso Venezia con Via Senato. Non è più rossa, ma di un triste beigiolino, però almeno qualche anno fa (non tanti, per la verità) vi hanno messo pure una targa-ricordo. Oltre a quella, però, la città del Futurismo non è andata. Da anni si parla di un Museo del Futurismo, che dovrebbe essere in costruzione, ma per il momento è calma piatta.
Mesi fa avevo avuto notizia che Giovanni Lista e Ada Masoero erano stati incaricati della mostra del centenario del Futurismo, a Palazzo Reale, e già questo mi preoccupò. Sulla Masoero non ho nulla da dire. Lista è uno studioso del Futurismo, con un’imponente bibliografia alle spalle, ma certo non può vantare altrettanta esperienza sulle mostre. Un libro è una cosa, una mostra un’altra: altre le dinamiche.
Inoltre, dal tam-tam del mondo dei collezionisti si capiva che si stava facendo la “raccolta dei capolavori”, una raccolta dove la figura di Marinetti era stata messa, per così dire, nello sgabuzzino delle scope.
Ora, a Milano, a mio avviso, volendo fare la mostra sul centenario del Futurismo, si doveva partire proprio da lì: dalla “centralità” di Marinetti. Una gigantografia del manifesto di fondazione del Futurismo (come i poster murali di Armani), a mo’ di portale, sotto cui dover passare per entrare in mostra. E poi, all’interno una “linea continua” di bacheche con libri, foto e documenti che dialogasse con le opere sulle pareti. Perché sarebbe ora di far capire al “popolo delle mostre” che il Futurismo aveva un’anima e uno zoccolo duro di natura essenzialmente poetico-letteraria, e che da lì uscì tutto il resto. E quindi le opere d’arte sono solo la risultante, la punta di quell’iceberg la cui parte sommersa è invece composta dai testi teorici. Perciò chiamai Vittorio Sgarbi, allora assessore alla cultura, e gli dissi che “se non c’era Marinetti ora saremo qui a guardarci negli occhi” (la frase era più colorita, ma comunque il senso è lo stesso). Di lì a poco, Sgarbi mi “rassicurò”, dicendomi che era “tutto sistemato”. Pensai che forse era intervenuto con i curatori, per riportare il progetto entro binari più filologici, invece proseguì con un “faremo la mostra su Marinetti al Palazzo delle Stelline”. Non volendo rigirare il coltello nella piaga con un amico, la chiusi lì, ma era chiaro che la soluzione trovata era forse peggio di quella iniziale.

In sostanza, si andava a riproporre una vecchia dicotomia del Futurismo, che vedeva il movimento come formato da due anime, ambedue grosso modo d’accordo sulla “sostanza”, ma discordi sulla “forma”: anime che all’epoca furono definite “Marinettismo” e “Futurismo”. Insomma, a Milano dove era nato il Futurismo, anziché celebrarlo nella sua globalità, si andrà a riproporne una visuale scissa in due, con due mostre “ufficiali” ma antagoniste: la prima più vocata alla spettacolarità delle arti visive, la seconda più filologica e centrata sulla figura di Marinetti. Come guelfi e ghibellini, le forze sono state divise, anziché unite.
È ovvio che per un giudizio più puntuale e sereno bisognerà vedere delle preview più attendibili dei comunicati stampa, se non le mostre stesse, ma ho il sospetto che la prima sarà l’ennesima sequenza di belle opere con qualche documento, mentre la seconda sarà più “profonda”, cioè più ricca di materiali documentari (la famiglia Marinetti è “qui”) con l’aggiunta di opere originali, ma non opere qualunque: dipinti di Boccioni, Balla, Prampolini, Depero, Dottori e altri futuristi che a suo tempo furono nella collezione di Marinetti. Ma il phisique du rôle di mostra del centenario, cioè di una mostra che ti fa vedere il meglio di quella punta dell’iceberg, ma allo stesso tempo ti fa entrare nel suo humus letterario per comprenderne tutte le sfumature, non lo avrà nessuna delle due, sebbene credo che la mostra alle Stelline vi si avvicini di più.
In ogni caso, anche Milano ha perso l’occasione del secolo, cioè di celebrare “coralmente” il centenario del Futurismo.

Al di là di questo, vi è poi il panorama della provincia, a volte più frizzante, più eclettico, ma con budget limitati e quindi nell’impossibilità di ottenere opere importanti, che spesso implicano alti costi di assicurazione e trasporto. E qui abbiamo notizie di mostre o convegni o festival futuristi in varie città.
Scampoli del 2008.
Iniziamo dal Museo di Riva del Garda, nel quale è stata allestita un’ottima mostra cosiddetta “di nicchia”, titolata I futuristi a Dosso Casina e curata da Luigi Sansone. Non si tratta, come a prima vista si potrebbe intendere, di un resoconto sulle “attività turistiche” dei futuristi, sebbene Dosso Casina si trovi sul Monte Baldo, con una vista mozzafiato sul Lago di Garda. Piuttosto, Dosso Casina fu teatro di cruenti scontri tra Italia e Austria, nel corso della Prima guerra mondiale, e là operarono, in prima linea, i futuristi volontari al fronte: Marinetti, Sironi, Sant’Elia, Funi, Erba e altri. Insomma, coerenti con i loro proclami interventisti, se ne andarono al fronte al grido di “Trento e Trieste italiane!”.
A San Giuliano Milanese era la mostra Futurismo. Libri, manifesti e riviste dalla collezione Gianni Manzo, il grande collezionista recentemente scomparso.
A Venezia, al Museo Correr c’è Depero. Su questa mostra non mi addentro (anche perché l’ho curata io, e non è deontologicamente corretto auto-recensirsi, sebbene molti lo facciano). E poi le mostre monografiche non fanno “sostanza” ma solo “corpo”, cioè portano l’attenzione sul Futurismo, ma poi si concentrano solo su un segmento, che è appunto quello dell’autore trattato. Quindi, non essendo collettive, non possono essere considerate mostre “del centenario”. Oltretutto, questa non è nemmeno una mostra antologica su Depero, ma il ritratto di Depero “visto” attraverso l’occhio critico di un collezionista che ne ha raccolti quasi cento.

Il 2009 si aprirà con un progetto espositvo fatto di tre mostre collegate: la prima al Mart di Rovereto (titolata Illuminazioni), la seconda a Venezia al Museo Correr (titolata Astrazioni) e la terza a Palazzo Reale di Milano (titolata Simultaneità). Curatrice delle tre mostre, un progetto che si chiama Futurismo 100 e coprirà l’arco di tutto il 2009, sarà – indovinate un po’ – Ester Coen, e offrirà una rilettura del Futurismo attraverso la ricostruzione della trama delle avanguardie storiche del primo Novecento, mettendo in evidenza quelle che sono state le influenze e le contaminazioni fra i temi e i contenuti futuristi. L’articolato intreccio di nuove visioni, di tecniche e linguaggi rivoluzionari che percorrono due decenni, quasi in assenza di confini geografici, sarà appunto illustrato attraverso un dialogo non solo fra tre mostre ma anche fra tre città.
La mostra al Mart metterà in risalto il complesso gioco di rapporti tra il Futurismo e le avanguardie europee, mentre in quella al Museo Correr il percorso espositivo evidenzierà le diverse cifre e il sincronismo del passaggio al non figurativo di una generazione proiettata verso le forme dell’astratto. La prima coglierà l’aspetto più dinamico e cromatico, l’altra la dimensione più lineare e sintetica del Futurismo, disegnando un quadro di diversità e risonanze, di accordi e contrapposizioni che farà rivivere le atmosfere vorticose degli anni delle avanguardie storiche. Della terza al momento non si sa granché.
Lette così, tanto di cappello. Forse il centenario del Futurismo si celebrerà proprio qui: fra Rovereto, Venezia e Milano. Non sarà mai che il baricentro della progettualità espositiva e museale si stia spostando nel Nord/Nord-est ?

Forse a conferma di questa tesi, vi sono altre due notizie. In primis l’annuncio di una mostra sull’Aeropittura futurista che si dovrebbe tenere al Museo Caproni di Trento nell’autunno del 2009. E sarà sicuramente un evento interessantissimo, non foss’altro perché finalmente le opere dei futuristi aeropittori saranno esposte tra gli aerei che le hanno ispirate, anziché su fredde e asettiche pareti di anonime sale espositive. E infine Gorizia, dove sembra che si farà il punto sui rapporti tra Futurismo e le avanguardie dell’Est, ma focalizzando il tutto attorno alla figura di Marinetti.
Ritorniamo a Roma, dove per il 2009, in effetti, una produzione autoctona ci sarà. Sto alludendo a Roma futurista, un complesso di eventi che si terrà al quartiere di Testaccio attorno al Micro (che sta di fronte al Macro). Mostra futurista, eventi per le strade, teatro futurista, cucina futurista, convegno, cinema futurista e d’avanguardia. Sarà probabilmente una festa di popolo come forse l’avrebbero voluta i futuristi, che certo non amavano le inaugurazioni con i “notabili” tutti “tirati a festa”.
Anche a Firenze pare si stia preparando qualcosa sul Futurismo, ma ancora le notizie non sono certe. Mentre dovrebbe essere quasi sicura una mostra monografica su Tato, futurista bolognese poi trapiantato a Roma. Però né a Roma, né a Bologna, ma probabilmente a Vigevano!
Pure Verona parlerà futurista, e in un certo senso è una specie di evento. Sì, perché negli ultimi anni, in Italia, anche la più piccola città che ha avuto un suo cittadino anche solo in “odore di futurismo” ha messo in piedi eventi epocali, dove spesso c’era molto fumo e poco arrosto. I futuristi veronesi, invece, che negli anni ‘30 erano assolutamente uno dei gruppi più interessanti, con pittori di prima qualità come Ambrosi, Di Bosso e Verossì, e poi scrittori e poeti capeggiati da Piero Anselmi (l’anima del gruppo), e pubblicitari come Amos Tomba (suo il famoso manifesto con l’arena vista a volo d’uccello), sono stati in salamoia fino all’altro ieri. A toglierli dal limbo ci ha pensato una piccola casa editrice, Vita Nova, che fa capo a un gruppo di appassionati (tra i quali il figlio dell’Anselmi), che ha iniziato a pubblicare, spesso auto-tassandosi, una serie di piccole monografie sugli artisti e poeti futuristi veronesi.

Ma quanto alle strutture pubbliche: nebbia profonda. Finché c’è stato Cortenova a dirigere Palazzo Forti, il Futurismo non è entrato neanche dalla porta di servizio. Invece dalla porta di servizio se n’è uscito lui, Cortenova, per fare una modesta mostra sul Futurismo veronese in una piccola galleria privata, anziché nel suo museo. Perché? Boh! E ora? Cambiata la giunta, cambiato sindaco, cambiato assessore alla cultura, si farà qualcosa? Forse sì, ma certo non sarà quello che si dovrebbe fare nell’anno del centenario. Sembra che i futuristi veronesi siano stati giudicati nell’entourage del nuovo assessore come “futuristi minori”. Peccato però che questa era la linea della critica di trent’anni fa, mentre oggi in tutte le più importanti mostre sul Futurismo, e in particolare sull’Aeropittura (che fu la svolta del Futurismo all’inizio degli anni ‘30: dipinti di volo, dipinti fatti su vere sensazioni di volo), i futuristi veronesi sono sempre presenti in forze, essendo appunto considerati tra i migliori. Quindi Verona si concentrerà su una mostra alla Biblioteca Civica che metterà fuori i “gioielli”, cioè una serie di libri futuristi, e poi vi sarà una mostra collaterale d’opere futuriste (e altri eventi) progettata già da tempo dal gruppo dell’Anselmi e che il Comune ha cooptato. I finanziamenti (dopo le “trasfusioni” per le mostre a Palazzo Forti) saranno centellinati, e quindi la mostra sarà quel che sarà. Se poi il Comune è il primo a non crederci più di tanto…
Anche qui, a meno di ripensamenti, un’occasione persa per una grande mostra sul Futurismo veronese.
E Bologna? Per chi non lo sapesse, la prima pubblicazione in assoluto del Manifesto di fondazione del Futurismo (per quanto ne sappiamo a tutt’oggi) avvenne proprio lì: altro che a Parigi. Era il 5 febbraio 1909, e lo scritto di Marinetti fu pubblicato su “La Gazzetta dell’Emilia”. Pensate che, poi, prima di essere pubblicato a Parigi uscì altre sette volte in Italia, e persino su un giornale rumeno, “Democratja” di Crajova, il 16 febbraio 1909. Quindi dovrebbe essere proprio a Bologna che ci dovremmo dare appuntamento, in Piazza Maggiore, per stappare lo spumante futurista del centenario, e poi andare a inaugurare una mostra ad hoc. E, infatti, Beatrice Buscaroli, fresca di nomina con Luca Beatrice al Padiglione italiano della Biennale di Venezia, ma anche esperta e appassionata di Futurismo e curatrice di varie mostre sul tema, si è inventata una mostra sul Futurismo bolognese che s’inaugurerà proprio il 5 febbraio.

In conclusione, si colgono segnali contrastanti. Dalle istituzioni pubbliche segnali di “curve pericolose” ma anche di proposte qualificate. Mentre sembrano forse più dinamiche e frizzanti le proposte della provincia. Bisognerà affinare la “sintonia”, come sulle vecchie radio a valvole, nei prossimi mesi, sperando che la situazione migliori, o sia meno “grave” del previsto.
Quella che ci sembra mancare, invece, è la presenza del mondo universitario, di qualche convegno qualificato che faccia non tanto il punto della situazione, piuttosto dia una decisa sterzata alla visuale critica ancora viziata da letture ideologiche. Per la verità, uno in programma ci sarebbe, a Ficarra, presso Messina: si terrà a febbraio 2009 sul tema della Pubblicità futurista, organizzato da Anna Maria Ruta, e già il nome di una studiosa così seria è una garanzia. Poi vedremo se ne sorgeranno altri.
Ma il dubbio iniziale ora è divenuto una domanda assillante: sopravviverà il Futurismo a queste “attenzioni” centenarie?

P.S.
Il Futurismo (lo dice il nome stesso) è sempre “più avanti”. Quindi può essere che quando leggerete queste note esse siano già superate. Come si sa, la realtà spesso è più fantastica della fantasia.

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maurizio scudiero


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 55. Te l’eri perso? Abbonati!

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  • M. Scudiero ha perfettamente ragione quando accusa gli italiani addetti a divulgare l'arte nazionale (istituzioni, governanti, critici, giornalisti, curatori)di esterofilia ingiustificata e prona al servilismo. Internazionalizzare e sprovincializzare l'arte italiana non significa chinarsi supinamente ai potenti stranieri (mercanti , musei, stampa estera, ecc..), ma significa dar sempre e costante risalto ai nostri artisti che ci hanno dato lustro e sono tutt'ora epigoni per tutti. Dico tutti, anche forestieri. Troppo poco parliamo dei nostri, che non han nulla da invidiare ai conclamati artisti europei, americani, cinesi, indiani e così via. Molti hanno imparato da noi e poi copiato (a loro modo) con l'appoggio finanziario ed espositivo di precise politiche del loro Stato, avvedute e di tormaconto nazionale. Noi invece rifuggiamo dal celebrare i nostri figli migliori. Oppure lo facciamo sommessamente. Siamo proprio stupidi !

  • non sono un'esperta di futurismo ma su Parigi-Roma e le due mostre a Milano mi sento di condividere le preoccupaziooni di Scudiero.
    Iniziative ce ne saranno molte si vedrà. Ma se posso esprimere un parere personale, ritengo che queste grandi celebrazioni del passato non solo debbano essere comprese e godute, ma che debbano essere un occasione di riflessione sul presente, su ciò che siamo diventati. L'arte oggi mi sembra più individualista (dove sono i movimenti culturali?)e proiettata eslusivamente sul presente: vendi prendi i soldi e scappa.
    Il futuro solo una temuta incognita che non
    si vuole più immaginare.

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