L’ingresso sulla scena artistica degli ’70 del “soggetto imprevisto” ha generato nuove forme di scrittura della storia dell’arte? All’attuale attenzione verso le artiste di quegli anni corrisponde una trasformazione dei canoni storico-critici e curatoriali? Quali strategie è possibile mettere in campo, oggi, nella critica d’arte per dare espressione alle differenze di genere e non solo? Sono queste le domande che domani, dalle 18, si porranno ai Frigoriferi Milanesi – nell’ambito della tavola rotonda “Critica d’arte e femminismo, ieri e oggi”. A parlare Silvia Bordini, Marica Croce, Francesca Pasini, Claudia Salaris, Paola Ugolini, Giorgio Verzotti, Francesco Vezzoli, moderati da Raffaella Perna.
Dopo svariate mostre di ricerca curate, soprattutto in collaborazione con la Galleria Richard Saltoun di Londra, per gettare nuova luce sulle artiste del “clima femminista” degli anni ‘60 e ‘70 e per incoraggiare gli investitori nei confronti delle giovani protagoniste di oggi, Paola Ugolini ci racconta il proprio percorso, attraverso il quale emergono i grandi ostacoli alla legittimazione di questo tipo di arte: la crisi economica del collezionismo e un mercato ancora cristallizzato in pregiudizi di genere, non così diversi da quelli di cinquant’anni fa, quando Carla Lonzi “sputava” su Hegel.
Parliamo di femminismo nell’arte. Cosa ne pensi di questa parola?
«La parola femminismo è una parola che spaventa. È una parola abusata, svuotata ormai di significato originario e nei magazine femminili spesso rivestita di un appeal ludico che confonde completamente le idee. Ho incontrato negli ultimi tempi tante donne spaventatissime dall’idea di essere identificate con questa definizione, quindi ancor di più io voglio urlare che sono femminista. Penso che sia necessario iniziare a fare un po’ di chiarezza sul termine, su quello che significa, su dove stiamo andando, su cosa è stato ottenuto».
Come critico d’arte e curatrice ti stai dedicando molto a questo tema negli ultimi anni. Perché questa scelta?
«Ho iniziato con il primo Convegno della Critica d’Arte al Palazzo delle Esposizioni di Roma, organizzato da Ludovico Pratesi e Carolyn Christov-Bakargiev verso la fine degli anni Ottanta, sviluppando il topos dell’utilizzo del corpo nell’esperienza artistica contemporanea. Da quel momento mi sono gradualmente avvicinata all’arte realizzata dalle donne, soprattutto quella femminista dalla fine degli anni Sessanta in poi, visto che il corpo diventa la tela su cui tessere un vasto discorso non soltanto sessuale, ma anche etico. Durante un’Artissima di cinque anni fa ho incontrato Richard Saltoun, gallerista di Londra molto sensibile a questi temi, e mi sono rimessa in gioco. Ho curato per la sua galleria la mia prima mostra di arte femminile: The Body As Language, titolo tratto dal famoso saggio di Lea Vergine, dove ho costruito un parallelo tra le esperienze di body art delle artiste degli anni Sessanta e Settanta e le giovani italiane nate dopo il 1975. Successivamente, Cristiana Collu e Massimo Mininni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma mi hanno permesso di espandere questo concept iniziale in quella che è stata la mostra Corpo A Corpo del 2017. Sempre presso la Galleria di Saltoun nel 2018 ho realizzato le mostre Women Look At Women e Vocalizing, entrambe con review molto positive… devo dire che ho ricevuto più attenzione in Inghilterra che in Italia!».
Lea Vergine, The Body As Language
Realizzare mostre di questo tipo non è facile, soprattutto quando ci si relaziona con il mercato. Nonostante le artiste donne siano più numerose degli uomini nelle accademie, è più difficile infatti venderle. Quali sono, secondo te, i motivi di queste resistenze?
«In molti casi il lavoro delle artiste donne è più eclettico, quindi è necessario avere un’apertura mentale maggiore. Spesso la critica tende a demoralizzarsi se non viene presentato un lavoro immediatamente riconoscibile, come un arazzo di Boetti o una tela estroflessa di Castellani. Nel caso di molte artiste donne sono state diverse le modalità che le hanno portate ad avvicinarsi all’arte e il contesto in cui sono vissute. C’è poi da dire che, con la crisi della classe sociale media, oggi tutto quel collezionismo che poteva spendere dai 5.000 ai 30.000 euro soffre: i prezzi delle donne artiste sono questi, sia delle giovani che delle storiche. Non parlo delle artiste britanniche o americane ormai “blue chip”, come Jenny Saville, Cecily Brown o Cindy Sherman, il cui mercato si rivolge ad un collezionismo ricco che non risente della crisi. Vendere un’artista non americano, donna e di ricerca, non è per niente facile e richiede che un collezionista abbia un po’ di fiducia, o che si innamori del lavoro, o che conosca molto bene l’argomento. Per cui sì, è diventato molto faticoso».
Il tuo impegno è quello di aiutare le artiste in questo senso, portandole anche nelle fiere. Che difficoltà stai riscontrando e dove, invece, stai avendo successo?
«Sin da quando ho cominciato a fare il critico d’arte e poi la curatrice mi sono sempre interessata di mercato. È una cosa che ho scelto di fare perché mi sembrava che l’unico modo per aiutare le artiste donne ad avere una loro dignità, non solo critica ma anche artistica come operatrici del mercato al pari degli uomini, fosse venderle. Ma la società patriarcale è come la mafia: esiste e si fa finta che non ci sia, soprattutto nel nostro paese, perciò le difficoltà sono le stesse che potevano esserci negli anni Settanta. Per esempio, la prima volta che ho convito Richard Saltoun a presentare uno stand di body art a Miart, nella sezione “Decades” curata da Alberto Salvadori, mi ricordo un collezionista romano guardarsi intorno e andarsene dopo avermi chiesto: “Paola scusa ma sono tutte donne?”. Come vedi non c’è stato un grande cambiamento nelle mentalità. Invece posso dire di aver tratto una bella soddisfazione dal lavoro svolto con Renate Bertlmann: nel 2017 abbiamo partecipato a Frieze Contemporary London con la Galleria di Saltoun, in una sezione che si chiamava “sex works”, realizzando uno stand molto ironico che assomigliava ad un sex shop. È stata una sfida ma ha contribuito ad attirare l’attenzione su di lei: oggi la Bertlmann rappresenta il padiglione austriaco alla Biennale di Venezia».
Gina Pane, Azione Sentimentale, 1974
Nonostante le riserve che puoi incontrare, pensi di continuare con questo tipo di progetti?
«Sicuramente sì: voglio che le coscienze vengano scosse da argomenti che sono importanti, attuali, che non bisogna far finta di non vedere. Durante Frieze 2019 presenterò uno statement politico nella Galleria di Saltoun, con una mostra che si chiamerà Around An Idea Of New Italian Feminism In Contemporary Art. Vorrei rappresentare quello che le giovani artiste italiane stanno facendo, in questo momento, a livello di attivismo nell’arte contemporanea, realizzando una contrapposizione fra il mondo domestico indagato da Silvia Giambrone e l’attivismo da strada che invece caratterizza il lavoro di Marinella Senatore. Ritengo importante mostrare, su un palcoscenico internazionale, quanta volontà ci sia nelle giovani artiste di urlare il loro dissenso nei confronti del revanscismo maschilista che impera nel nostro paese e che sta svilendo l’immagine della donna in tutti i modi. A Miart, quest’anno, ho portato un progetto che ho in mente da tempo sulla fluidità di genere. Come femminista, mi interessa tutelare i diritti e le pari opportunità per tutti, quindi anche per gli omosessuali e i transgender. Abbiamo portato i lavori di Ulay, Pierre Molinier, Klauke e per la prima volta in Italia i video della drag queen inglese Victoria Sin, tutti artisti/e che hanno lavorato su quel crinale indefinito dell’identità sessuale. Penso che sia un tema scottante, su cui la società dovrà fare i conti nei prossimi anni. Io personalmente abolirei il genere se fosse possibile…ma forse mi sto spingendo un po’ troppo avanti».
Alice Bortolazzo