Il mito d’oggi dell’arte contemporanea

di - 8 Gennaio 2013

Quanti hanno visto dal vero il teschio di diamanti di Hirst, il suo squalo in formalina, il Papa collassato sotto il meteorite di Cattelan, una performance di Marina Abramović? Pochi, in confronto a quanti riconoscono in quelle immagini delle opere d’arte contemporanea, ignorandone il titolo, ricordandole così come ho appena fatto, il teschio, lo squalo, il Papa. Tutte queste opere, e potremmo aggiungerne molte altre alla lista, sono diventate più famose di coloro che le hanno ideate, sono miti d’oggi alla stregua dell’Iphone e You tube, di facebook e dei voli low cost anzi, per certi versi, ne sono conseguenza. Sfuggendo ogni merito sostanziale il mito dell’arte contemporanea è figlio della comunicazione, anzi di un sistema di comunicazione, l’oggetto mitico vive della sua immagine che è il modo in cui esso si esprime. Questo modo è stabilito e gestito oggi dal potere finanziario che opera tramite la suggestione rafforzativa del prezzo corollario invisibile dell’immagine sua cornice enfatica. È giusto però partire dall’inizio.

Com’è ovvio nell’affrontare quest’argomento non si può prescindere dal processo, indicato peraltro da Roland Barthes nel celeberrimo Mythologies, di allontanamento del senso originario dell’opera d’arte, man mano che si fa forma mitica, dal sapere che l’ha prodotta, da una memoria dalla comparazione di idee e dalle scelte conseguenti. L’opera d’arte, infatti, non muore nella sua immagine, anzi, sopravvive, ma in maniera intermittente, più la forma si assoggetta alla comunicazione più quest’intermittenza, si affievolisce, si dirada sino a scomparire e mutare in una luce che nuovamente illumina quella forma, quell’immagine. L’arte, una volta uscita dalla continuità genealogica della storia dell’arte diviene fatto contemporaneo, come tale tende ad alimentarsi della cronaca usando sia la disseminazione e la dissolvenza dei contenuti per schiacciare la memoria sulla contingenza, sia una controversa fuga dal mondo reale per fornire un alibi all’immaginazione.

Da un lato l’arte sembra la celebrazione del passato per l’uso della citazione, della copia, che indica una filiazione, dall’altro trova asilo nella teoria dell’immagine per muoversi in una realtà che ha definitivamente sciolto ogni legame con la letteratura critica. Il discorso per immagini stimola un uso disinvolto della pratica interpretativa che risponde a uno sguardo che interroga continuamente la simulazione e scruta le modalità di vivere nella simulazione. Oggi lo sguardo è orientato verso un’estensione del soggetto e verso uno spazio condiviso, perciò vede la differenza scegliendo un’identità simbolica riflessa nei gusti personali e cerca un dialogo globale con altri modi di guardare la realtà, pertanto di materiale condivisibile. In questa condivisione i contenuti originari dell’arte sono inevitabilmente dissolti. Tra archiviazione di immagini e trasmissione, s’inseriscono operazioni di montaggio e giustapposizione, elaborazioni ed alterazioni sino alla radicale manipolazione. La volontà di mostrare, preponderante sulla volontà di trasmettere senso, eliminate le idee, le sostituisce con il divertimento, con un passatempo culturale. Per un rovesciamento di ruoli, il processo di risarcimento del vuoto di senso, e di contenuti, viene affidato ad un immaginario basato sul narcisismo, sull’aggressività, sulla riflessività, in pratica sull’efficacia della comunicazione.

Ecco quindi che quando l’arte entra nella strategia della comunicazione dal cesso (Duchamp) all’eccesso (Hirst) è gestita con una brama consensuale; sicché l’eclettismo non diventa altro che un ampio ventaglio di possibili formule usate per tacitare ogni dissenso, ogni dubbio e, cosa ancor più grave, un modo per rendere possibile qualsivoglia emulazione. Il Mito d’oggi non è quindi l’opera di Duchamp, ma la sua immagine, l’orinatoio non Fountain del 1917 di cui non importa né ricordare il titolo né il significato ossia la fatidica capriola dal mondo delle merci a quello dell’arte. Nel suo ritorno a quello delle merci da immagine promozionale, l’orinatoio ha la stessa valenza di una cantante pop. Il volteggio, che fa ruotare di 90 gradi Fountain rimettendolo a posto come un cesso, è l’effetto di una strategia collaterale che cancella ogni portato ideologico e stocca le opere d’arte in un serbatoio iconico da dove la comunicazione attinge in momenti di bisogno. La critica curatoriale quando si allea con la comunicazione assume aspetti a dir poco paradossali, ad esempio usa una prosa intenzionalmente rivolta a far piazza pulita dei luoghi comuni e a denunziare l’arretratezza culturale, ma che finisce per essere la base consensuale di un’operazione di marketing.

Perfino nel campo letterario un libro come L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, di Mauro Covacich alla fine risulta essere una specie di manuale per la formazione del colto uomo contemporaneo. Così, una volta individuato il soggetto, si profila la tipologia di un pubblico già in grado già di identificare il critico d’arte in Vittorio Sgarbi o lo stravagante cultore in Philippe Daverio, e si configura un’audience.

A questo pubblico era probabilmente rivolta la puntata di Quelli che il calcio condotta da Victoria Cabello che giocava, (l’ha imparato dal suo ex Cattelan?), sull’accostamento tra Marini (Valeria) e Marina (Abramović) fallendo il trasporto della prima nell’arte contemporanea ma portando l’altra nel calderone mediatico, non a caso, infatti, la mostra della performer balcanica a Milano è stata salutata come un evento alla moda e come tale commentato. Non è giusto però liquidare la medializzazione dell’arte contemporanea e, conseguentemente, condannare in toto la sua mitizzazione. Le opere d’arte contemporanea, vittime del consumo delle proprie immagini esercitano un fascino per contrasto. Questo consumo, anche quando, in effetti, è obiettivo principale dell’artista, viene eluso dall’opera d’arte che si ritrae in quella dimensione temporale, descritta benissimo da Giorgio Agamben, costituita in anticipo su se stessa e per quest’anticipazione sempre in ritardo. Si comprende, quindi, come ogni opera d’arte, avendo una speciale relazione con il passato, si collochi tra la dimenticanza dell’estremamente remoto e l’incombente sparizione a venire, così da allontanarsi dalla sua immagine che di solito cerca di sanare l’incertezza di un presente dove non siamo mai stati, eppure è proprio in questa incertezza che la riconosciamo.

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 81. Te lo sei perso? Abbonati!

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