13 luglio 2000

Il museo come non-luogo dell’opera d’arte

 
Le questioni relative ai musei sono continuamente oggetto di discussione a diversi livelli, si potrebbe anzi dire che il dibattito si fa vieppiù calda col passare del tempo, come risposta dell’aumento del numero delle istituzioni museali

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Uno dei motivi dei punti cruciali è la gestione economica dei musei, e su questo punto, scottante soprattutto nel nostro paese, si dividono i pareri tra chi si schiera per difendere la situazione presente, dove i musei sono in massima parte sostentati da finanziamenti pubblici, e chi invece propone l’alternativa partecipazione degli enti privati, in forma esclusiva o partecipata.
La discussione si rinfocola, sulla scena italiana, allorché viene messa a confronto la lenta e pachidermica situazione gestionale dei musei italiani e la agile, organizzata e pianificata amministrazione dei musei americani, che traggono benefici dalla ben nota defiscalizzazione applicata agli investimenti in opere d’arte.
Vi è chi sostiene che, al di là della diffusione e del successo dei musei registrato in questi ultimi tempi, non si possa indicare una vera evoluzione dell’idea stessa del museo e neppure un reale processo di adattamento ai bisogni e alle funzioni del pubblico contemporaneo, che del servizio-museo fruisce.
Le prime collezioni pubbliche hanno origine relativamente recente, essendo sorte nel XVIII secolo (Venezia). L’idea di museo moderna nasce solo in epoca napoleonica, come conseguenza del programma politico francese che considerava l’arte come uno strumento di propaganda e di prestigio. Tale ultimo processo si deve forzatamente inserire in un periodo oscuro per l’arte; particolarmente l’Italia, durante la dominazione francese ha infatti assistito non solo alla soppressione della maggior parte degli enti religiosi, con conseguente acquisizione, da parte dello Stato, delle opere di loro spettanza, ma anche alla spoliazione del territorio in generale delle proprie opere d’arte dalle truppe francesi. La Pinacoteca di Brera fonda la sua collezione in massima parte sulle opere che i francesi, avendole tolte dai territori loro sottomessi, avevano radunato a Milano, in attesa di trasferirle in Francia.
Altare di anonimo fiorentino, fine XVI secolo
Il museo è oggi uno dei palcoscenici più importanti sui quali va in scena l’arte, certamente quello che raccoglie la popolazione più ampia, per livello culturale ed età. Tuttavia, pensando all’atto creativo e ai possibili contesti entro i quali esso si manifesta, viene da chiedersi se sia il museo veramente il luogo idoneo ad accogliere lo spettacolo artistico o se non sia, al contrario, un falsa scena, un non-luogo. L’opera d’arte, soprattutto nel passato, non era creata per il museo: essa, a seconda del committente, poteva essere destinata ad una chiesa, ad una piazza, ad una villa nobiliare, alla sala di una municipalità, al castello del Signore; l’artista, in fase di progettazione dell’opera d’arte e di ispirazione, agiva sotto l’influenza di una serie di variabili: la propria volontà artistica era una di queste, certamente, ma vi erano anche la volontà del committente, e la volontà del luogo per il quale l’opera era destinata; in quest’ultimo caso, il luogo non condizionava solamente le misure dell’opera e, in generale, tutte le proprietà estrinseche dell’opera, la forma insomma, ma anche quelle intrinseche o i contenuti. Ad esempio era ben diverso progettare una tela di soggetto sacro per un altare o per un collezionista privato. Senza considerare tutte le questioni logistiche connesse all’altezza a cui l’opera doveva essere esposta, la luminosità cui era assoggettata, la posizione occupata dall’osservatore, ecc..
Di qui si deduce questo principio: almeno per l’arte antica e moderna (fino agli impressionisti) l’opera d’arte vive nel museo come un animale vivrebbe in cattività o in uno zoo: per quanto si cerchi di ricreare il loro habitat naturale, l’orso polare in gabbia non è lo stesso che noi vedremo sul Pack, avrà quanto meno perduto la propria libertà e la propria autonomia.
Dalla metà dell’800 l’artista si svincola, in qualche modo, dai legami che lo tenevano avvinto alla figura del committente e diventa esso stesso committente della propria opera (auto-committente). Di conseguenza si potrebbe presumere che l’artista, a questo punto, potesse, ora sì, creare opere per il museo; in generale non è così. Di lì a breve sarà il mercato a condizionare l’opera dell’artista, il quale si indirizzerà ad ideare opere non pensando alla destinazione museale, ma piuttosto cercando di impostare il proprio lavoro in modo da realizzare oggetti il più duttili possibile, sì da adattare la propria volontà artistica alle esigenze dei possibili compratori.
Nelle parole degli artisti anche più puri, quelli che vissero una vita di stenti in nome della difesa della propria poetica scarsamente compresa dai contemporanei, traspare questa volontà di trovare un compromesso tra le proprie necessità espressive e le istanze dei possibili (e necessari) compratori. Gino Rossi puntava a comprarsi i colori ad olio vendendo alcuni paesaggi a pastello. In tempi più recenti, Basquiat e Haring smettono di fare i graffitisti per adattare la propria opera allo spazio della tela.
Nessuno scandalo, William Gramp (1989) afferma che “le opere d’arte sono beni economici, il cui valore può essere misurato dal mercato; il venditore e l’acquirente di opere d’arte sono persone che cercano di trarre il massimo beneficio da ciò che posseggono. In breve l’attività in campo artistico è una attività massimizzante”. Ne viene che alla apparente libertà acquisita dall’artista rispetto ai vincoli del committente corrispondono in realtà i vincoli stabiliti in una sorta di auto-disciplina nei confronti di altri vincoli, essenzialmente quelli dettati dal mercato.
Giambologna, Studio per la Cappella del Salviati
E’ logico che questo discorso deve essere inteso a livello generale, non considerando cioè le cosiddette “opere fuori mercato”, quelle cioè che per la loro struttura e composizione (troppo grandi, fatte con materiali deperibili, ecc.) non rientrano, per precise scelte dell’artista, nel campo dell’arte ad uso e consumo dei mercanti. Talvolta accade anche che l’artista abbia agito (specie sul finire degli anni ’60) nel nome della denuncia nei confronti della mercificazione dell’arte proprio, anche se in questo caso si potrebbe affermare che il vincolo del mercato esista lo stesso nella misura in cui l’artista si obbliga ad operare in maniera volutamente contraria agli standard commerciali.
A conti fatti, si deve dedurre che il museo non è luogo per l’arte. La nascita delle collezioni statali e dei musei d’arte contemporanea è l’atto costitutivo della conservazione della memoria di una cultura nazionale (Santagata); ciò prevede una presa di coscienza e un riconoscimento della collettività nei confronti dell’opera di un artista, dunque l’opera esposta in un museo non potrà mai essere commissionata dal museo, bensì acquisita, frutto di una ricontestualizzazione nel segno di una appropriazione della collettività di un oggetto che è giudicato significativo per rappresentare un aspetto e una manifestazione della propria cultura.
Paradossalmente si potrebbe arrivare a dire che la galleria privata dove si vende l’arte, in molti casi può essere considerata più idonea del museo ad accogliere l’opera d’arte, quando cioè l’artista si dedichi alla creazione, per il proprio gallerista, di oggetti destinati alla vendita.

Alfredo Sigolo

[exibart]

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