Dopo la moda delle start-up, o correlato ad essa, un altro fenomeno di tendenza è emerso negli ultimi anni nel mondo della cultura: è l’universo riuso. Per chi fosse stato distratto, il Riuso è quella pratica che prevede il ripristino di spazi, spesso abbandonati o sottoutilizzati, attraverso contratti di locazione gratuiti o a prezzo calmierato concordati con il privato o con la pubblica amministrazione, al fine di restituire quello spazio alla città e alla sua cittadinanza.
È una pratica quanto mai positiva e necessaria: il nostro Paese è caratterizzato da una scissione fortissima tra chi possiede degli spazi (e che spesso non riesce a mettere a reddito) e chi invece ha bisogno proprio di quegli spazi per sperimentare idee, creare nuovi prodotti o servizi.
In altri termini, è una formula più estesa ed industriale di quella pratica degli anni ’70 in cui i ragazzi mettevano a posto la vecchia cantina per poter fare le prove della propria band, soltanto che a beneficiare di questa attitudine, soprattutto a seguito della grande crisi immobiliare e mobiliare che ha colpito il nostro Paese, non sono semplicemente ragazzi che sognano di diventare delle star del rock. Da un lato infatti la domanda di spazi da utilizzare vede sempre più coinvolti professioniste e professionisti, neoimprenditori o aspiranti tali, creativi di ogni sorta; dall’altro, a beneficiare di un restyling strutturale, è lo stesso proprietario dell’immobile, che potrà beneficiare della presenza di inquilini che si occupano della normale amministrazione degli spazi, e che renderanno tale immobile un luogo vivibile e (se tutto va bene) attrattivo.
Su questo schema si sono mosse le principali città nel mondo, e l’Italia non manca all’appello: Milano, Roma, Napoli. Tutte le principali realtà urbane hanno avviato politiche a sostegno del riuso di immobili.
In questo schema, tuttavia, c’è un elemento che inizia a mostrare alcune criticità: la moltiplicazione esponenziale su scala territoriale della stessa, identica, idea.
Il solito hub creativo, con (se va bene) il solito fablab e stampante 3d, il consueto spazio performance e l’usuale sala espositiva, accompagnati dall’immancabile bar-ristorante-self service.
Dal lato opposto della prospettiva, del resto, le Amministrazioni Comunali non stanno facendo molto meglio: allocazione degli spazi ad Enti Territoriali, Ristrutturazione e Locazione degli Immobili, cessione degli stessi ad un fondo di Real-Estate della Cassa Depositi e Prestiti che provvederà a ristrutturarlo e a venderlo (quando ci riesce) a qualche società di investimento estera.
E quando non è nulla di tutto ciò, ecco che appare l’incubatore di imprese, con i corsi di formazione per aspiranti imprenditori, qualche piccolo tentativo di investimento e di coinvolgimento di business angels privati, e (ancora, se va bene) una qualche start-up che riesce ad avere un exit [una strategia di uscita, di disinvestimento] in attivo.
Tutto ciò ha segnato un passaggio profondamente positivo. È stato il momento in cui, metaforicamente e concretamente, una generazione ha compreso che per trovare futuro era necessario aggiustare quanto di rotto, di abbandonato, di mal gestito proveniva dal passato per trasformarlo in qualcosa di produttivo e contemporaneo.
Ma la nostra società ha bisogno di eterogeneità dell’offerta (soprattutto) culturale. C’è bisogno di immaginare nuove forme aggregative di talenti che non ripetano pedissequamente quanto è stato fatto in una città lontana o vicina che sia.
Il modello dell’hub creativo è stato vincente. Ha prodotto risultati. E come in ogni mercato che si rispetti, dopo i pionieri, sono arrivati sempre più players, fino a quando la domanda non è stata completamente esaurita, con conseguente distribuzione delle fette di mercato con sempre maggiori competitor, e quindi riduzione delle entrate.
È arrivato il momento di pensare a questa pratica in un modo differente dall’ormai mainstream “non convenzionale”. È necessario adottare una metodologia di analisi e di lavoro che permetta l’individuazione dei bisogni reali di un territorio, e avviare delle sinergie di mercato in grado di produrre soluzioni, prodotti e servizi che costituiscano davvero un’attrattiva per il mercato di riferimento.
Pensare a nuove forme di “allocazione” di questi asset [Ogni entità materiale o immateriale suscettibile di valutazione economica per un certo soggetto], che magari cerchino di superare il vincolo del non-profit sostituendolo con l’istituzione di capitali vincolati, con la Pubblica Amministrazione che partecipa in qualità di “azionista” e non semplicemente da ente che “mette a disposizione” un bene che in realtà non è stata in grado di gestire.
Avviare percorsi di investimento, ricorrendo alle formule di finanziamento che già esistono nel nostro Paese per altri settori, sperimentando nuove forme di partecipazione sociale e societaria, che permettano di recuperare gli immobili e trasformarli prima di tutto in fonte di benessere economico e sociale.
Allo stato attuale, sembra che questi spazi siano destinati a diventare centri commerciali o hub culturali. I primi, senza alcun valore culturale, i secondi (spesso) senza reale valore economico.
Tra di essi, ci sono innumerevoli potenzialità. Basta soltanto uscire dalla strada asfaltata del già fatto.
Stefano Monti