Questa sua posizione “autonoma” ha quindi a che vedere con la formula “arte non Ufficiale”, piuttosto che “del dissenso” adottata per la sezione arti visive…
Con questa formula ho voluto rendere conto di una precisa situazione storica, con l’intento sia di contenere le interne speculazioni dei socialisti, sia di rispondere alle accuse del Pci di strumentalizzazione in funzione antisovietica.
Preoccupazioni di strumentalizzazione giunsero però anche da parte di artisti stessi, come Neumechin, che le indirizzò una lettera di protesta per il fatto di essere stato coinvolto a sua insaputa…
Al momento di fare un piano per le arti figurative, io ho steso una lista, privata, ancora ipotetica, di artisti “non ufficiali” da proporre per la mostra, che Ripa di Meana, con un atto scorretto, un vero colpo di mano, ha tirato fuori in una conferenza stampa che annunciava i contenuti della Biennale del dissenso. Questo ha provocato un caos nei vari paesi, creando seri problemi agli artisti che vennero accusati dalla polizia di collaborare con l’Ovest. E ha rovinato il progetto della mostra, chiudendoci tutte le vie di collaborazione diplomatica con i governi.
Le opere esposte, dunque, vennero raccolte tra quelle esistenti in Europa occidentale, attraverso citazioni critiche e museografiche, senza un diretto rapporto con gli artisti o i governi. Quali le difficoltà nel lavorare in queste condizioni?
La questione della conferenza stampa causò una levata di scudi ufficiale da parte dei paesi che ci interessavano e che si allinearono sulle posizioni di contrarietà del governo sovietico. Malgrado ciò, feci un viaggio di ricognizione tra Budapest, Varsavia, Berlino Est, dove però mi avevano segnalato subito in quanto curatore della mostra, facendomi sempre seguire a distanza dalla polizia. Ho girato, parlato con molti artisti, ad esempio a Budapest, dove lavoravano anche contestatori sul piano del comportamento e della mail-art, una forma molto libera.
Fa riflettere, in effetti, che sia a Parigi che a Berlino che a Londra ospitassero in quegli stessi anni mostre delle avanguardie sovietiche più recenti. Al di là delle difficoltà politiche del ’77, sembra invece che la critica in Italia fosse ancora fortemente legata all’astrattismo storico, e piuttosto inerte rispetto alle espressioni della “nuova” arte sovietica…
In Italia si pensava che l’astrattismo russo fosse l’apporto forte, come del resto è vero, di tutta l’avanguardia sovietica fino allo stalinismo, fino a includere alcuni artisti vicini alla nuova oggettività, ma che dopo ci fosse il vuoto. Faceva eccezione Giuseppe Marchiori, veneziano e primo per vocazione regionale a dialogare con gli artisti anche “non ufficiali” dell’est europeo, molti dei quali partecipavano alle Biennali, liberamente, nei rispettivi padiglioni nazionali: per primi negli anni Cinquanta gli jugoslavi, seguiti da polacchi e ungheresi. Invece, proprio i russi del realismo socialista, che pure arrivavano alle biennali, erano marginalizzati, considerati dei mentecatti. Né i governi italiani democristiani e di centro-sinistra, né i mercanti avevano interesse a promuoverli ed esporli. A Parigi, certo, c’era più attenzione per il quadro sovietico, anche per la presenza di una colonia di artisti esuli, della linea un po’ simbolico mistica, legata alle icone, della scuola di Leningrado, come Zacharov Ljiagacev e altri…
Tornando alla mostra, cosa ha significato sul piano dell’osservazione critica l’impiego di categorie come “figurazione e figurazione lirica”, “gesto materia e immagine” o “ironia e altro intorno al quotidiano”? Quali gli artisti più interessanti?
Erano categorie critiche che avevo adoperato anche in Occidente -alcune modulate in relazione ai materiali e ai problemi che si presentavano-, dunque che servivano all’inserimento in un discorso critico complessivo. Fu un tentativo articolato e sistematico di dare un senso e un ordine storico-critico alla “nuova” arte sovietica, che avevo già avviato nelle mostre Alternative attuali del ’65 e del ’68 all’Aquila. Lì ho cominciato a mettere dei punti fermi su tutto un panorama che una decina di anni dopo, a Venezia, si arricchiva confermando molte intuizioni in merito ad artisti che erano già allora i migliori. Interessanti i surreali, come il primo Kabakov, e soprattutto i Cinetisti, già conosciuti nel ’65, con la loro esaltazione della tecnologia. Poi, vera novità della mostra, una linea vicina o dialettica rispetto alla pop art e all’immagine del quotidiano. Interessanti anche gli informali come Kulakov, Plavinski Bulakov e la Masterkova. Artisti che hanno poi fatto poca fortuna anche perché hanno perso quell’aura di “non ufficialità” che li faceva emergere in quel contesto.
Finita la gestione Ripa di Meana, entro cui fu possibile un’edizione speciale come quella del dissenso, la Biennale ha poi smarrito la capacità di cogliere l’attualità anche in chiave così politica e sociale…
Al di là delle intenzioni politiche, il valore di Ripa di Meana come Presidente stava nell’alto senso del ruolo e nell’apertura all’attualità vera. Gestioni successive, come quella di Galasso, se pur bravo storico, sono state ad esempio sordide, riduttive, prive di inventiva… Negli anni successivi ha cominciato a dettare legge quasi esclusivamente il mercato, il protagonismo e voglia di arraffare dei critici demiurghi alla Bonito Oliva, scadendo in una sorta di provincialismo “internazionale”. Credo invece che il giusto ruolo del critico dovrebbe essere di scegliere gli attori con le loro qualità professionali, per poi armonizzare i rapporti e mettere insieme una squadra complessiva. Pluralità e non la logica dell’accentramento e del protagonismo divistico che è poi prevalsa.
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