INVASIONI VIDEOLUDICHE

di - 18 Luglio 2010
L’invasione continua, o forse non è mai finita. La
leggenda vuole che, all’uscita di Space Invaders (1978), la Zoheikyoku, la zecca
giapponese di Osaka, abbia ricevuto l’ordine di aumentare vorticosamente la
produzione di monete da 100 yen per placare la febbre da videogioco. Oltre al tableau
vivant
di Guillaume
Reymond
, Human
Space Invaders

(2006), con le sue 67 comparse simulanti una partita dal vivo del gioco, Space
Invaders
è stato
oggetto negli ultimi anni di alcune interessanti operazioni di recupero da
parte del mondo dell’arte.

Il suo creatore, Tomohiro Nishikado, ha raccontato che il design dei
mostri gli è stato suggerito dagli alieni descritti nel romanzo di H.G. Wells, La
guerra dei mondi
(1898).In
un universo videoludico primitivo, popolato da banali navicelle e carri armati,
l’iconografia degli alieni di Space Invaders ha portato una ventata di
indiscutibile originalità. I mostri del gioco Taito sono forse i primi
personaggi a rompere con la mimesis tradizionale

Il videoclip di Reuben Sutherland, Happy up Here (2009), per i Röyksopp, descrive
un assalto urbano da parte di gruppo di alieni ispirati ai mostri Taito.
Sutherland parte dal tema dell’invasione per tradurre su un piano narrativo le
regole del gioco, e l’effetto d’ansia specifico da esso generato. Gli alieni
avanzano sempre più velocemente verso la navicella. L’invasione è un processo
irreversibile. Il giocatore è votato alla sconfitta: fine dei giochi, oppure si
prega di inserire un’altra moneta.

Fra i progetti più interessanti, l’ultima versione
interattiva di Invaders! (2008), presentata da Douglas Edric Stanley alla Game Convention di Lipsia.
Il nocciolo dell’installazione consiste in una versione modificata del gioco in
cui la battaglia spaziale si svolge sullo sfondo digitale delle Torri Gemelle
in fiamme. La notizia è rimbalzata subito su alcuni network americani,
suscitando l’ira delle associazioni per le vittime dell’11 settembre. Edric
Stanley ha scelto di ritirare l’opera dal salone dopo aver ricevuto alcune
minacce di morte sul suo blog.

Anche se Stanley non è un game designer di professione, la
sua versione modificata di Space Invaders si avvicina molto ai political game ideati da alcuni game designer
critici quali Gonzalo Frasca e Carlo Pedercini, fondatore della factory mantovana La Molle
Industria. Sebbene coadiuvata da un punteggio come nel gioco originale, in
questo contesto l’invasione si configura come un’attività estetica senza scopo,
finalizzata soltanto a rimettere in gioco il nostro sguardo e le strategie di
rappresentazione del reale.

Invasioni urbane digitali ma anche reali, come nel caso
dell’artista francese Invader, impegnato da dieci anni a installare in giro per il
mondo piccoli mosaici di plastica che recuperano l’iconografia del videogioco.
Invader produce installazioni discrete, incollate sotto la segnaletica delle
strade, oppure nei punti meno vistosi dei viadotti. Su un piano compositivo, l’opus
tessellatum
non è
forse il modo più efficace per replicare nella realtà i pixel degli avatar
primitivi?

Come in un videogioco tradizionale, Invader si assegna per
ogni città invasa un punteggio. Al termine del suo “reality
game” l’artista disegna una mappa urbana dei siti colpiti per documentare
il proprio intervento. Con un approccio videoludico, Invader resta fedele alle
regole del proprio gioco, inseguendo il traguardo dell’invasione definitiva,
della partita ideale, di quel “best score” che potrà sempre essere
nuovamente battuto.

E quest’estate Invader sbarca nella città capitolina per
preparare la seconda sessione autunnale del progetto Living Layers organizzato dalla Galleria
Wunderkammern, in collaborazione con il Museo Macro.

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