Lo scrittore di fantascienza e viaggi nel tempo, buchi neri e biologia extraterrestre, nonché biochimico e inventore di software, Clifford Pickover, ritiene che gli alieni avrebbero sensi diversi dai nostri e forse non dipingerebbero tele ma “preparerebbero squisite composizioni di profumi”: la loro arte culinaria sarebbe equivalente alle nostre arti visive e uditive, per cui “mangiare un piatto particolarmente raffinato sarebbe come ascoltare la Quinta Sinfonia di Beethoven”.
Neanche il tempo di pubblicarle nel 2005 (in un libro a cura di D. J. Brown “Conversations on the Edge of the Apocalypse”), queste profezie “aliene” si sono pienamente avverate nel campo dell’arte contemporanea “terrestre”. Così nel 2007 un cuoco con le sue composizioni gastronomiche fu invitato a Documenta di Kassel: era Ferran Adrià, (nella foto in alto) il quale è convinto che se qualcuno si sedesse ad un tavolo del suo ristorante sarebbe perfettamente in grado di meditare sulla propria esistenza. Tre anni dopo, nel 2010, Chandler Burr, già critico di profumi per il New York Times, diventa curatore di arte olfattiva per il Museum of Art and Design di New York, organizzandovi la mostra “The Art of Scent: 1889-2011” e poi curando nel 2015 “Oggetti d’arte” per la rassegna Pitti Fragranze: i profumi e le essenze in mostra, a suo dire, sono opere d’arte “Perché create per esprimere un punto di vista, riflettere i valori dell’artista, farci pensare e provare sensazioni”.
I profumi e la cucina degli alieni sono ormai approdati nel mondo delle arti contemporanee, anche se pochi tra i frequentatori di questo mondo avrebbero la sfrontatezza di paragonare gli “artisti” del profumo Antoine Lie, Bertrand Duchaufour o Jacques Cavalier a Rembrandt, Picasso o De Kooning.
Chandler Burr, Oggetti d’arte per la rassegna Pitti Fragranze
Però la strada è ormai aperta, se è vero che Philippe Ségalot, uno dei più influenti consulenti d’arte al mondo, proviene dal settore marketing de L’Oréal di Parigi: il mondo dei cosmetici e dell’arte, della bellezza e del superfluo sono dunque molto più simili di quel che si creda.
Il sillogismo del resto sarebbe corretto: 1) un’opera d’arte esprime sensazioni; 2) cibo e profumi sono sensazioni ergo cibo e profumi sono opere d’arte.
Ma spesso in ciò che è ovvio si nasconde una devianza o, come asseriva Martin Heidegger, “un’insidia”: se un assassino seriale affermasse che un omicidio è un’opera d’arte (del resto anche lui uccidendo esprimerebbe il proprio vissuto)? se un terrorista dicesse lo stesso delle sue efferate azioni oppure un pilota di un F35 mentre sgancia i suoi missili centrando chirurgicamente il bersaglio?
A Karlheinz Stockhausen, scomparso nel 2007, fu negato l’ingresso negli USA e annullati di conseguenza i concerti in programma per aver dichiarato l’impossibilità, da parte di un regista di opere, di fronte alla recente tragedia delle Twin Towers, di poter rappresentare in modo altrettanto drammatico la caduta dell’uomo, mentre il filosofo Mario Perniola nel 2016 ha scritto uno stimolante e ponderato libro dal titolo, non poi così provocatorio, Del terrorismo come una delle belle arti.
Proviamo a forzare i paradossi: e se un artista commettesse un omicidio presentandolo come opera d’arte?
Che oggi nel mondo della transestetica contemporanea sia possibile tutto è un dato di fatto (mail e nail art, make-up art, sound art, bondage art, food design, cheeky exploits…), come lo è affermare che tutto ciò che esprime sensazioni sia un’opera d’arte. Ma potremmo trovare ancor più legittimo, proprio a fronte dell’insidioso sillogismo “terrorismo/arte”, cercare di verificarne la correttezza (o la sua metafisica aberranza).
Che un vitello segato in due o uno squalo esposti in teche di vetro riempite di formalina possano far pensare alla morte e alla corruzione della carne lo trovo più che comprensibile (piacciano o meno). Che un piatto di carne servito al ristorante ci possa far riflettere sulla morte in genere e su quella dell’animale in questione (tanto più se si è vegetariani) è comprensibile, ma di qui a dire che un’opera di Damien Hirst sia equivalente a una tagliata di chianina lo ritengo improbabile e forse insidioso. Provate ad addentare un’opera di Damien Hirst o a placare la fame pensando alla morte (senza toccare la carne che avete nel piatto): le cose non sarebbero interscambiabili né equivalenti, semplicemente non funzionerebbero (anche se può succedere che dopo una visita al Museo del Bargello di Firenze, uno abbia assorbito tanta bellezza da non riuscire a inghiottire neanche una nocciolina). Nel caso dell’opera d’arte hai la necessità e l’obiettivo di comunicare una sensazione (pur se non si tratta solo di ciò), in quello della culinaria lo scopo è primariamente riempire lo stomaco, nutrirsi (con buona pace della cucina molecolare e destrutturata).
Abbiamo ritenuto, negli ultimi 50 anni almeno, che qualsiasi tipo di esperienza (manufatti, corpi viventi, azioni ordinarie, fenomeni naturali, concetti…) potesse diventare materiale ready-made per un’opera d’arte, senza però capire in realtà che l’opera d’arte diventava ready-made in un altro sistema di riferimento. Non era dunque la realtà ad entrare nel territorio dell’arte, ma l’arte a trapassare e dissolversi in quello della realtà, un processo che oggi fa dire a molti che un’essenza profumata o un piatto cucinato (ma anche un abito, una motocicletta, un ordigno nucleare) sono opere d’arte.
Non ci sono soluzioni pronte (né si cercano): nel frattempo speriamo solo che gli alieni, dovessero presentarsi, si incuriosiscano di fronte a un dipinto Rembrandt senza però servirsene come asse per il ferro da stiro…
Marco Tonelli