La crisi del contemporaneo

di - 23 Settembre 2017
Il coro di voci che da più parti del globo ha intonato il requiem per Documenta 14 solleva un interessante interrogativo sulla situazione attuale delle mostre internazionali messe in relazione con il pubblico. L’arte contemporanea sta infatti attraversando un periodo oscuro, una sorta di Crisi del Mondo Moderno per dirla alla René Guénon, che ha di fatto reso superfluo il concetto di comprensione, oltre che quello di conoscenza.
Il curatore sembra aver declamato il suo diktat: chi guarda un’opera non deve per forza di cose capirla, ma entrare nello spirito della mostra  solamente contemplandola. Eppure comprensione e contemplazione  possono  venire  considerate  non  opposte  l’una  all’altra bensì  due  elementi complementari egualmente necessari,  che si completano a vicenda. Contemplare una mostra ha senso se si può anche comprenderla.
Quando parliamo di Documenta ci riferiamo ad una manifestazione con un budget da 38 milioni di euro che quest’anno si è presentata al pubblico con mappe illeggibili, segnalazioni incomplete, nessun aiuto didattico ed un catalogo sommario che non ha agevolato il pubblico a comprenderne le opere. Questa politica antieducativa è ovviamente tesa a rendere ancor più enigmatica ogni cosa più che sciogliere i nodi e rendere la comprensione di una mostra accessibile ai più.
Si tratta però di un modus operandi che ovviamente non è nato con Documenta ma è bensì frutto di una progressiva linea di pensiero che si è fatta larga strada a partire dalla metà degli anni ’90, dopo i “Non luoghi” di Marc Augé e le “Estetica relazionale” di Nicholas Bourriaud.
Justin Matherly, Skulptur Projekte Münster 2017
In seguito, a partire dal 2000, l’estremizzazione di queste teorie ha generato un’esasperante corsa al rialzo, verso la proliferazione sistematica ed inarrestabile di un meccanismo che trasforma ogni manifestazione artistica in una gentrificazione livellante e livellata.
“Arte contemporanea” oggi è una dicitura, un mero marchio aziendale; all’interno di ogni mega-mostra tutto sembra essere ordinato e pulito, ogni opera è messa lì a bella posta per svolgere il suo compitino voluto dal curatore ma il nocciolo centrale, la parte emotiva necessaria a catturare il cuore del pubblico, manca.
La lingua visiva del curatore è divenuta una sorta di esperanto che non conosce specificità o localismo sia culturale che sociale, e all’interno di questo monologo gli artisti sono infilati a forza in un conglomerato di estetiche le quali a loro volta si impastano all’interno di un discorso sfilacciato.
All’interno dell’impianto curatoriale contemporaneo tutto sembra una strategia ben calcolata, anche quello che potrebbe apparire fortuito o frutto di una mano malcerta. Se qualcosa può risultare confusionario agli occhi del pubblico allora vuol dire che funziona, questa sembra esser diventata l’unica regola. Ecco quindi che la confusione e l’astruso cripto-mimetismo di simboli e contenuti innescano reazioni a catena a dir poco granduignolesche, dove il povero fruitore si ritrova a confondere sale espositive con lavori in corso per vere e proprie installazioni e viceversa. Ma va detto, per la cronaca, che chi genera confusione del resto si ritrova parte del medesimo caos, ed anche i curatori delle maximostre globali si sono ormai ridotti a raschiare il fondo del barile, rimpastando a rotazione concetti come conflitti bellici, crisi economiche, immigrazione e tumulti politici. La curatorial practice 3.0 prevede sempre un territorio nomade o di confronto, un qualcosa che possa garantire una nuance di impegno sociale ma che riesce solo ad essere un pretesto vago che il più delle volte sembra quasi trarre profitto da una qualsivoglia situazione di disagio più che arrivare a conclusioni precise o portare benefici pratici.
Maria Eichhorn Unrecht maessige Buecher Neue Galerie © VG-Bildkunst Bonn 2017 © Mathias Voelzke
Si inneggia all’inclusione, alla compartecipazione, ma è chiaro che all’interno delle manifestazioni artistiche internazionali, solo chi fa parte del ristretto giro di sistema riesce a cogliere un senso ultimo che, detto fra noi, spesso si risolve in soluzioni smaccatamente dozzinali. Lo spettatore resta spettatore, con l’illusione di essere parte attiva all’interno dell’opera. Per certi versi questo potrebbe anche esser lecito; vale a dire che non tutta l’arte deve per forza rispondere a criteri di interattività. Va però detto anche che il compito primordiale dell’arte è quello di veicolare un determinato significato o simbolo, e se tutto questo non accade allora il meccanismo non è poi così ben oliato. Comprensione, come si diceva, questo è l’importante, e la grande rivoluzione dovrebbe partire proprio da qui, fermo restando che ogni rivoluzione, comprende due idee: anzitutto quella di una rivolta contro un dato stato di  fatto;  poi  un  ritorno.

Micol Di Veroli

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