Siamo a Milano, nei pressi del Politecnico. Alla fermata dell’autobus ci sono due ragazze di circa vent’anni, di ritorno dalle ore di lezione. <<Sai, adesso che mi sono trasferita a Milano il mio ragazzo mi ha chiesto di installare quest’app, che gli permette di vedere sempre dove sono. Mi ha detto che non lo fa per controllarmi, ma per stare tranquillo. In questo modo può sapere sempre dove mi trovo>>. <<Si vede che ci tiene>>, gli risponde l’amica. <<È che non sa con chi sono, non si fida>>, conclude l’altra. In queste poche battute colte da una comune conversazione si condensano una faccia nuova e una vecchia di un problema arcaico: quello del possesso e del controllo di un genere sull’altro, ieri espresso con la dipendenza economica e sociale della moglie nei confronti del marito, oggi incrementato dalla pervasività della tecnologia che rivela il minutaggio delle nostre comunicazioni, la logistica dei nostri spostamenti, che sventra la privacy e instilla il dubbio feroce, la nevrosi permanente espressione di una smania di potere spesso chiamata “amore”.
Lo stretto legame tra il possesso e l’amore si perde nella notte dei tempi ed è trasversale, poiché non risparmia nessuna classe sociale, nessuna categoria di appartenenza, nessuna appartenenza etnica. La violenza è un codice pervasivo in cui restiamo immerse e immersi per tutto il corso della nostra vita, ma senza accorgercene. Una grande ruolo viene svolto dalle immagini, un altro dal linguaggio: in televisione gli uomini sono vestiti e le donne nude, nella pubblicità il corpo della donna ammiccante viene sfruttato per vendere ogni sorta di prodotto, nei film del passato la sopraffazione del marito sulla moglie era uno stilema ricorrente e persino ironico. Nella cultura popolare i luoghi comuni si sprecano: “auguri e figli maschi” e altre frasi fatte troppo brutte per essere riportate qui. È doloroso ammetterlo, ma sono tutte parti integranti di una cultura che abbiamo profondamente introiettato, e scardinarle è faticoso. È un lavoro costante che implica una scomoda presa di coscienza e un dubbio nei confronti di ogni automatismo. Ma si tratta dei diversi aspetti di uno stesso problema? Quanti passi ci sono tra una “innocua” battuta sessista detta dal conduttore di un programma in prima serata e il gesto di un uomo che mette fine alla vita della compagna?
In un recente articolo uscito per La Stampa, il teologo Vito Mancuso afferma che il problema è tanto il patriarcato quanto il matriarcato. Il problema sta nella parte dell’“arcato”, desinenza comune in tante forme che esprimono la sopraffazione e il potere di una parte sull’altra. Ma nella realtà è proprio così che stanno le cose? Qualunque sia la risposta è bene che se ne parli, che si scandagli e analizzi a partire dal linguaggio per alimentare il dibattito e dare voce a quel disagio quotidianamente vissuto e sopito a cui non è così difficile dare risposta. A cui non si può dare risposta, finché ingabbiato nelle briglie di strutture che non ci vogliono tutte e tutti uguali, che ci ricordano costantemente che il traguardo è segnato, ma il punto di partenza è diverso a seconda del genere e della classe di appartenenza.
Il brutale omicidio di Giulia Cecchettin ha sollevato un’ondata di risentimento e disagio inauditi, mettendo in evidenza la voglia di parlare di una piaga sociale che affligge tutte. E pensare che il suo non è un caso isolato, bensì il 105esimo (e neanche l’ultimo) dall’inizio dell’anno. Anzi, non si è trattato neanche di un omicidio, bensì di un femminicidio – a pensare che, mentre scrivo, questo termine è segnato in rosso, sconosciuto dal mio programma di scrittura. Le parole sono importanti perché aprono mondi e delineano prospettive e scenari politici. E il femminicidio è tutt’altra cosa. È il risultato finale e esasperato di una serie di sopraffazioni quotidiane, sottili o meno, legittimate dalle consuetudini, che accomunano le esperienze di tutte e a cui si è sentito il bisogno di rispondere riempendo le piazze di indignazione e rumore. “Che palle le femministe”, “ideologiche, estreme, esagerate”, “basta con questa storia del patriarcato”, “#notallmen” si sente spesso dire. L’ideale sarebbe dissentire, ma senza disturbare troppo, secondo alcuni. Eppure ogni tanto la polveriera esplode, in forme conflittuali o dialogiche. Non è un caso se il film d’esordio di Paola Cortellesi regista abbia sfondato al botteghino: C’è ancora domani, che arriva al nocciolo della questione dichiarando (e questo non è uno spoiler) “per essere libera non hai bisogno di un altro uomo, hai bisogno di diritti costituzionali”. Un film che da quanto si apprende dalle ultime notizie era stato osteggiato, o almeno un po’ liquidato, dal Governo, sebbene la risposta del pubblico sia bastata a metterne in evidenza la necessità. Sì perché di un tale messaggio se ne aveva bisogno come l’aria, perché ancora oggi è difficile trovare qualcosa di diverso dall’influencer che ci dice “be yourself” ma invitandoci ad acquistare l’ultimo prodotto di skincare.
La Cultura è un’arma potentissima e il linguaggio è pervasivo. Lo sapevano bene le artiste impegnate a scardinare le tendenze vigenti, come Carla Accardi che cerca nel connubio tra pittura, scultura e design una nuova espressione anti istituzionale, o Ketty La Rocca che rifiuta il linguaggio corrente per cercarne uno nuovo attraverso le mani, che parlano al posto della voce. Andando oltreoceano, prendiamo Judy Chicago, che nel 1971 assieme a Miriam Shapiro fonda il Feminist Art Program (FAP) al California Institute of the Arts, un programma di totale rottura con le accademie vigenti, le quali condizionavano le artiste con una visione tutta al maschile. E ancora, Protect me from what I want, ci ricorda Jenny Holzer nella sua celebre installazione proiettata sull’insegna al centro di Times Square. Un’opera che punta l’attenzione questa volta sui desideri, i quali rischiano di non appartenerci più: volevo davvero prendere quella decisione? Desideravo davvero questo dalla mia vita? Cosa mi ha spinto a intraprendere questa strada? In un mondo in cui anche il desiderio è veicolato dal volere altrui, non ci resta che l’ascolto, il tumulto che risveglia necessità urgenti e collettive. Affinché questo 25 novembre, dedicato alla Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, non sia fatuo, retorico, ricordiamoci che la cultura patriarcale è pervasiva ma non immutabile. Che la Cultura è un’arma potentissima, ma che il nostro agire, quotidiano e inesorabile, può trasformarla in uno strumento di consapevolezza e libertà.
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