06 aprile 2006

La guerra di Napoli

 
di anita pepe

La guerra di Mario è il nuovo film del cineasta partenopeo Antonio Capuano. La storia di una complicata adozione con –a far da sfondo- una Napoli allucinata nei suoi contrasti da metropoli sudamericana. E, qua e là, elementi utili per riflettere sul rapporto (in)felice tra l’arte contemporanea ad il capoluogo campano…

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D’accordo, non siamo i Cahiers du cinema e la pellicola è già nelle sale da un po’, ma qualche riflessione sul film di Antonio Capuano La guerra di Mario qui non è del tutto incongruente, visto che significativa, nel tessuto iconografico e nell’economia narrativa della vicenda – storia di un affido problematico, con scene della lotta di classe all’ombra del Vesuvio –, è la presenza dell’arte contemporanea. Non solo perché la protagonista, una Valeria Golino più trepidante, stralunata e cervellotica che mai, la insegna con coinvolgente trasporto (discettando, ad esempio, del blu dipinto di blu firmato Yves Klein), ma anche perché la macchina da presa del regista partenopeo si sofferma spesso e volentieri sui risultati tangibili di quello che negli ultimi anni è stato il più consistente (e forse unico) investimento intrapreso e propalato dalle istituzioni locali. Transitano così sul grande schermo le stazioni del metrò dell’arte –quella di Materdei, per la precisione– coi luccicanti mosaici di Sandro Chia e i gioiosi colori di Sol LeWitt, mentre la prof, attorniata da un manipolo di studenti interessati e disciplinatissimi, illustra il concept del progetto, svelandone automaticamente le contraddizioni, fin dal linguaggio “iniziatici” adoperato dalla posillipina Giulia, intellettuale dell’upper class col look grunge-chic, filantropa per autogratificazione e musa del Sacro Verbo della creatività in una città dove l’integrazione tra i quartieri è pura utopia. Daniel Buren, la sede dell
Insomma, la “democrazia dell’arte”, confinata comunque in ambito elitario, non solo non ha salvato Napoli, ma non ha inciso granché sul tessuto umano di una realtà allo sbando. E il fatto che la –larvata– denuncia giunga non dalla bocca di uno stimato e acrimonioso giornalista settentrionale, ma da un filmaker locale deve far riflettere, piuttosto che innescare la solita giostra di manie di persecuzione e filippiche contro il disfattismo.
La fallimentare parzialità dell’operazione si evidenzia, purtroppo, con squallida ferocia nelle sequenze girate a Ponticelli, storico insediamento operaio abbandonato al degrado e alla criminalità, in cui abita Nunzia, la madre naturale del piccolo Mario. O meglio s’arrangia a campare non tanto in una condizione di indigenza materiale, quanto di povertà spirituale, in un sottobosco extralegale e immorale che segna ancor di più il divario tra le anime dannate degli inferni edilizi di periferia e gli eletti dei paradisi con vista Capri. Ebbene, il balcone di Nunzia (interpretata da una grottesca Rosaria De Cicco) sta proprio dirimpetto al palazzo dell’Arin “ridisegnato” da Daniel Buren, che qualche anno fa ricevette dall’azienda di gestione dell’acqua l’incarico di vivacizzare la sede. Idea lodevole, sponsorizzata dagli Incontri internazionali d’arte, per la quale l’artista francese, specializzato negli interventi in situ ideò un bel tirassegno colorato sulle fiancate dell’edificio –Cerchi d’acqua– e pensò bene di sostituire l’anonima rotonda spartitraffico con una bella fontana colorata, bomboniera di lusso posata lì a mo’ di omaggio. L’avessero lasciato fare, e gli avessero dato i soldi, probabilmente avrebbe messo in riga pure i palazzoni intorno che, tanto per non discostarsi dagli stereotipi delle banlieue di tutte le latitudini, sono orridi casermoni destinati a ricettacolo di ubermenschen. Come da copione, applausi da parte dei critici e promesse da parte dei politici: un altro passo verso una riqualificazione delle periferie, l’esercito della bellezza trionferà in ogni angolo della città e via con la retorica. Naturalmente, non ci vuole molto per indovinare la realtà: e cioè che la Ponticelli di Capuano, sporca, fatiscente, abbrutita e riarsa non è un set cinematografico.
Daniel Buren, la sede dell
E che lì ci sono più case di Nunzia che muri firmati Buren. Certo, il palazzone dell’Arin è stato assorbito nel paesaggio del luogo e dall’immaginario di massa, ma dov’è la periferia riqualificata? L’unico a centrare il bersaglio, a quanto pare, è stato l’artista, il quale forse avrebbe meritato che il proprio lavoro non planasse sulla solita cattedrale nel deserto, a sottolineare il contrasto con lo scenario postatomico dove si svolge la guerra quotidiana dei tanti piccoli Mario, e che quella fontana malata non diventasse l’ombelico di un corpo incancrenito. A ciascuno il compito di trarre le conclusioni, e senza troppe cerimonie, visto che questa goccia nel mare è bastata a tanti per lavarsene le mani.

anita pepe

[exibart]

8 Commenti

  1. Complimenti all’autrice del testo: mi sembra un articolo esemplare per attirare l’attenzione sul corrente e sempre più diffuso impiego dell’arte contemporanea come strumento di mera propaganda pseudodemocratica e autolegittimazione culturale da parte di classi politiche del tutto disinteressate a sviluppare un’autentica interazione fra arte pubblica e vita quotidiana. Napoli, in questo senso, è probabilmente l’esempio più lampante di simili operazioni di facciata (che comunque servono a costituire sempre nuovi e utili rapporti di potere). Per certi versi è la solita storia del pane e circensi, con la differenza però che qui il popolo nemmeno si diverte, anzi si pretende che stia contrito a studiare il verbo concettuale dell’opera di qualche grande artista planato da un altro mondo (a cui subito ritorna), mentre il camion della spazzatura non passa e l’acqua è inquinata

  2. Non ne ero a conoscenza.L’acqua erogata nella periferia di napoli è inquinata? Non vi è efficienza nei trasporti pubblici? Dati alla mano ,o per sentito dire? O capito non bisognava abbattere le vele a secondigliano per migliorare la qualità del quartiere.Perchè istituire musei di arte contemporanea/moderna,quando le periferie sono degradate?Perchè raddoppiare /triplicare le linee della circumvesuviana per collegare meglio le periferie?Forse occorerebbero dei termovalorizzatori per smaltire i rifiuti?Potremmo non sovvenzionare la ricerca delle università e investire il danaro per depurare l’acqua?No non è opporturo ,anzi e deplorevole istallare sculture C/O i metro’.Meglio dei semplici ingressi che costano poco.Si molto meglio.Perche’ comprare dei nuovi mezzi di trasporto nuovi,rottamando quelli con più di 70 anni di vita?Sbagliato aver creato delle aree libere dal traffico—meglio l’occupazione delle stesse da auto o mezzi pubblici?Sbagliato puntare sulla cultura,vedi mostre/eventi come fanno la maggio parte delle città italiane e straniere.I soldi del terziaro sono marci-Perche’ voler puntare sul turismo e l’immagine del “VECCHIO” patrimonio STORICO/ARCHEOLOGICO.No non bisogna valorizzarlo-Molto meglio il degrado-

  3. In relazione al messaggio precedente di Antonio, vorrei svolgere alcune precisazioni, non per polemica ma per scrupolo di chiarezza. Posto che la chiusura su acqua e rifiuti non era certo la parte centrale del discorso, per cronaca faccio presente che riguardo l’acqua inquinata mi rifacevo a un articolo apparso su Repubblica nell’ottobre 2004 ( http://www.napoli.repubblica.it/speciali/buonasanita/28-10-04/) mentre per i rifiuti è un dato di fatto che la gestione è commissariata da oltre dieci anni, il che non è propriamente indice di efficienza. Dei trasporti, infine, non mi risulta di aver parlato, così come di tutto quanto segue nel discorso di Antonio.
    Tornando all’argomento centrale del discorso, ovvero al rapporto tra arte contemporanea e città abitata, mi limito a riconsiderare una volta di più che non si può far scendere dall’alto interventi che sulla carta danno lustro e decoro (vedi gli articoli della stampa inglese sulla metropolitana napoletana con opere d’arte) ma che poi vivono del tutto avulsi dal contesto circostante (vedi, appunto, il bell’articolo di Anita Pepe). I miglioramenti (estetici e di servizi pubblici) non si escludono certo tra loro, dunque ben venga una Napoli come centro dell’arte contemporanea a cielo aperto, ma a patto che il complesso sia integrato per migliorare la vita comune (un museo all’aria aperta non vuol dire di per sè una città migliore per chi ci vive). Mi sembra che Napoli meriti molto di più di quanto ha attualmente, questa sola era la ragione del mio primo messaggio.

  4. Bellissimo articolo, davvero. Una delle poche volte in cui l’iperuranio dell’arte non svolazza qua e là. Riflessioni partite dal basso e tenute in basso con il migliore degli scrupoli intellettuali e con una forza sottile di denuncia alla mistificazione demo-(cratica?) che oggi scarseggia in ogni campo.
    Brava.

  5. Già dalle immagini di Antonio Capuano si avverte un senso claustrofobico, che l’articolo riesce magistralmente a ricreare (ancor di più con il calzante ritmo di termini a scioglilingua). Purtroppo dispiace constatare nuovamente di come l’arte sia ab-usata allargando sempre più il divario tra “arte” e “pubblico”.

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