10 dicembre 2012

La possibilità della pittura/1

 
Molti media oggi in uso nell'arte appaiono più adeguati al nostro tempo. La pittura, che non fa ricorso a nessuna tecnologia, vive invece di separatezza. Che cos'è allora a renderla attuale, linguaggio del nostro tempo in senso pieno? Non il semplice atto di essere un evergreen del mercato, cosa che pure dovrebbe far riflettere criticamente. Né il suo essere immagine del mondo. La pittura è per la capacità di interpretare questo mondo

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Se c’è un argomento su cui ho cambiato più volte punto di vista e approccio metodologico, questo è stato senz’altro la pittura. Non è che abbia propriamente cambiato idea, nel senso di essere passato da positive valutazioni a respingimenti con le dita incrociate, o viceversa. Piuttosto ci sono stati momenti in cui certe considerazioni che mi sembravano sensate, o meglio appropriate in una dimensione temporale astratta, perdevano ai miei occhi efficacia quando il riferimento diventava il presente concreto.

Le ragioni sono presto dette. Quando parli di pittura è inevitabile fare riferimento a quello che questo linguaggio rappresenta nella Storia dell’Arte. E anche se il riferimento non è esplicito, mentalmente sei lì che fai i conti con quello che precede e che la tua memoria conserva.

Succede lo stesso al pittore? Perché in fondo, anzi al principio, la questione è tutta qui. Cosa pensa il pittore che sta facendo un quadro? Pensa al mondo nel quale è, o pensa alla storia che si ripete nel suo gesto? È possibile e utile al risultato, riuscire a pensare ad entrambe le cose?

Rispondere non è così semplice come sembra, perché se è vero che l’arte è cambiata, lo è perché è il mondo ad essere cambiato, e in questo nostro tempo attuale è altrettanto chiaro che le differenze aumentano sempre più, e sempre più velocemente.

Chi utilizza il video, la fotografia, la rete o realizza installazioni o performance, corrisponde al mondo com’è, anche mentre sta mutando, proprio grazie al mezzo che usa. La tecnologia che adopera, quello che inquadra nello schermo, lo spazio in cui si muove, come gli oggetti e i materiali utilizzati, sono tutti elementi che riflettono una sincronia tra il mondo, il tempo, e l’artista. L’opera non fa a sua volta che testimoniare questa condizione. Naturalmente sincronia e riflesso conseguente non sono elementi di per sé sufficienti a farci comprendere meglio o di più di quel mondo con cui si è in presa diretta. Non sono cioè in alcun modo garanzia della realizzazione di opere significative.

Ma, e si tratta di un ma non proprio piccolo, è pur vero che il pittore nel suo studio davanti alla tela con pigmenti, olii, acrilici, vernici, smalti e quant’altro, non ha né sincronia né capacità di riflettere alcunché di quel mondo in cui pure vive. Almeno non in conseguenza della tecnologia che usa e di una qualche presenza diretta del mondo. Cosa significa e cosa comporta questa separatezza?

È avvilente veder risolvere, da molte delle poche menti critiche oggi al lavoro nel nostro Paese, le questioni poste dalla pittura oggi, con la banale riflessione su quanto essa sia necessaria al mercato in tempi di crisi. È una specie di mantra. Si dice: la pittura torna ad emergere periodicamente perché il mercato ha bisogno di cose da attaccare alle pareti. Questo, aggiungo io, evidentemente stimola anche qualche minima pulsione critica, probabilmente utile a dare sostegno intellettuale alle vendite. D’altro canto sarebbe come dire che un’opera di Hirst, o di Eliasson, Höller, Gordon, o chi altri, sia conseguente e proporzionale all’eventuale fase di espansione economica in cui è stata realizzata. È evidente come in entrambi i casi spiegazioni del genere riferiscano poco sull’opera e sulla sua relazione di senso con il mondo.

Quindi, almeno per questa volta, proverei a lasciare da parte la famosa, temuta, invocata, peccaminosa o virtuosa, relazione tra pittura e mercato, per dedicarci al tentativo di comprendere le conseguenze causate da quella separatezza e soprattutto su come, quando e se, può essere annullata.

Certo si potrebbe anche dire che sia proprio la separatezza a consentire alla pittura di avere una distanza, fisica e temporale, dal mondo in cui è, tale da permetterle di farci comprendere meglio il senso della complessità del reale. Inutile negare che una simile idea non è priva di suggestioni, comprese le possibili declinazioni poetiche e annesse introspezioni che s’intravedono. Ma allora delle due l’una, perché se è davvero così, se cioè la distanza è un elemento decisivo a questa comprensione, allora video, fotografia, installazione, performance, non sono in grado di dirci molto sul mondo, come invece immancabilmente ci dicono.

È evidente che invece la separatezza della pittura dal mondo, per come il mondo è oggi, e per come l’arte si situa al suo interno, è un problema, uno stato di difficoltà. La mancanza di sincronia le impedisce infatti quell’automatica continuità tra “il dentro e il fuori” dell’opera che potremmo anche definire come coerenza della coesistenza tra opera e mondo, dell’opera nel mondo e naturalmente anche viceversa. Tutti rimbalzi che danno significato all’opera, contemporaneamente attribuendo significazione al mondo. Non vorrei farla complicata, ma pensate alla pittura al tempo ad esempio di Giotto, di Piero della Francesca, continuando con quella all’epoca di Raffaello, Caravaggio, Canaletto, William Hogarth, Jacques-Louis David, procedendo così un po’ a caso, arrivando all’Impressionismo e anche oltre, e troverete sempre una corrispondenza, una sincronia, tra quell’arte e lo spazio-tempo del mondo in cui è. Il punto è proprio che quella era l’arte e non la pittura come uno dei tanti linguaggi possibili dell’arte. Certo c’era la scultura, ma non si ponevano tra le due differenze ideologiche sostanziali. E all’arte era destinato un ruolo che proveniva dritto dalla concezione platonica dell’arte, quella dell’imitazione della realtà, imperfetta perché copia della copia (Libro X della Repubblica).

Ma se Platone alla domanda di cosa fosse un’opera d’arte, sapeva cosa rispondere, così come dopo di lui per secoli tutti hanno avuto a questo proposito idee chiare, oggi, anzi dalla seconda decade del Novecento, la risposta non viene proprio semplice. E la pittura in questo contesto non ha potuto vivere una storia diversa ritagliandosi uno spazio autonomo. Chi lo ha creduto possibile, si è trovato, e si trova, a percorrere una via anacronista e soprattutto inutile.

La questione si pone dunque decisamente qui.

Non è possibile pensare alla pittura come ad un linguaggio dotato di una speciale e misteriosa qualità che gli consentirebbe di stare nel mondo in cui è immaginandosi in un mondo diverso, che non è nemmeno più identificabile nel passato, ma che sarebbe magicamente a-temporale. Questa cosa la porterebbe semplicemente fuori, come infatti accade quando si verifica, dal contesto dell’arte contemporanea, da quell’arte cioè dotata di una sincronia di senso con il proprio tempo, e che non è tale solo per il fatto di essere di volta in volta coeva ai fruitori.

La pittura deve invece necessariamente procedere da ragionamenti che sono gli stessi di quelli fatti da tutti gli altri linguaggi, e che inevitabilmente appartengono allo spazio-tempo da cui emergono. Il suo problema, quello che ci preme appunto capire, è come le riesca di passare in modo coerente da questi ragionamenti alla realizzazione della cosa che è identificabile come opera d’arte, senza perdere quella sincronia con lo spazio-tempo in cui è, che pure non le è fisiologicamente propria.

Veniamo dunque al punto. Io credo che questa cosa sia possibile quando la pittura abbandona l’aspirazione ad essere rappresentazione, specchio del mondo, quando cioè riesce a dimenticare la propria origine e la lunga storia imitativa che l’ha caratterizzata.

Per la verità, e in modo più radicale, penso che la pittura possa essere sincronica e divenire davvero opera d’arte coerente con il nostro mondo attuale, quando non si pensa e non si costituisce affatto come immagine, esteriore o interiore che sia.

Ma che vuol dire? Se la pittura non è elaborazione di un’immagine, allora che cos’è?

Una prima risposta si trova nella differenza tra la natura e il senso che l’immagine ha avuto nel passato, prima dell’avvento dei media analogici, e quella appunto che ha oggi nell’epoca digitale.

In questa differenza, facilmente individuabile, e che è ormai implicita al nostro stesso vedere e, per conseguenza, immaginare il mondo, sta l’impossibilità per la pittura di pensarsi come immagine e soprattutto per noi di vederla come tale. Perché se oggi penso ad un’immagine mia coetanea, non penso di certo a un quadro. Quando penso a un quadro, lo penso in altri termini, facendo altre considerazioni. Alla pittura richiedo né più meno quello che chiedo ad altri linguaggi e ad altri modi di pensare e realizzare un’opera d’arte, ossia le chiedo di capire di più il mondo che ho intorno, di capire meglio me stesso in questo stesso mondo. E tutto questo accade – quando accade – attraverso la messa in atto di un processo che non è definibile, né ordinabile, né replicabile e alla fine del quale c’è l’opera d’arte come cosa nuova che occupa un posto nel mondo dove prima non c’era nulla.

Il quadro più che un’immagine diventa dunque un elemento che, aggiungendosi al mondo, non lo rappresenta ma invece lo modifica, cambiandone propriamente struttura e fisiologia del reale. Ed è questa perturbazione inattesa della realtà che crea quella tensione immaginativa che rende l’opera – quadro, foto, video, installazione, suono, performance, scultura, multimixedmedia, o quant’altro – qualcosa che non è più dissociabile dalla stessa realtà.

Perché il mondo sarebbe senz’altro una cosa ben diversa senza “Guernica” di Picasso, o senza le piazze di De Chirico, ma anche senza l’orinatoio di Duchamp, le performance di Gina Pane, le foto di Nan Goldin o i quadri di Francis Bacon, quelli di Mark Rothko, le foto di Jeff Wall e ancora i quadri di Gerhard Richter. Togliete e aggiungete pure tutto quello che preferite.

*per la seconda parte de “La possibilità della pittura”, pubblicata il 11/02/2013 cliccare qui

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 81. Te lo sei perso? Abbonati!

1 commento

  1. La “Pittura” sembra da tempo che possa possedere, per il solo fatto che si tratta di un mezzo tradizionale, una qualità intrinseca che la pone su un piano diverso e forse superiore di quello dell’arte contemporanea. Superato questo pallido mito, scopriamo che oggi “Pittura” non significa nulla, oltre al processo materiale di porre colori in pasta su una tela, e non garantisce nulla di più di questo. Dunque sono d’accordo su quanto detto, infine vale come linguaggio al pari di tutti gli altri impiegati nell’arte contemporanea.
    Tuttavia volgendoci al passato, per cercare le tracce di quei fasti vediamo come la pittura, ma non solo, nella nostra cultura ha assunto funzioni e (riferendomi a quanto detto) relazione con il proprio tempo e la propria cultura, molto differenti. Sin dalle origini della nostra civiltà non dimentichiamo che l’arte visiva non è solo quella della visione classica, contestata da Platone, come copia di una copia. Lo stesso filosofo prediligeva l’arte arcaica e quella egizia, non naturalistiche. L’astrattismo geometrico delle Poleis, l’arte bizantina, romanica, il primo gotico. Non sono arti che rappresentano la “realtà”, ma come giustamente osservato sono funzione della stessa realtà, che la creano e da cui ne sono create. L’asserzione che l’arte visiva sia nel passato stata funzionale a rappresentare la realtà del proprio tempo, è un luogo comune al pari di quello che si tratti di oggetto di mercato. I due aspetti, quando presenti, sono elementi contingenti, di cui è improprio farne un’essenza. Quando sono prevalsi come puro mercato o pura rappresentazione, hanno prodotto le punte più basse. Qui si innesca la questione più controversa e importante: quella estetica, in effetti se l’arte non è solo rappresentazione o mercato, l’idea che sia un mezzo per «capire di più il mondo che ho intorno, di capire meglio me stesso in questo stesso mondo» prevale oggi come una possibilità di dare senso all’arte nella nostra contemporaneità. Viene cioè escluso come fosse ormai un discorso improponibile quello del “bello”. Questa esclusione è un altro luogo comune, nato dall’idea che il bello sia un aspetto irrilevante legato la puro piacere, che l’arte contemporanea combatteva quale edonismo borghese, nella lotta politica che conosciamo. Tuttavia nell’ambito filosofico, e non solo, oggi il “bello” è un tema che ritorna al centro del discorso, non solo dell’arte contemporanea, ma riguardo le problematiche che coinvolgono l’intera cultura occidentale. Emanuele Severino, tra i più rilevanti filosofi contemporanei scrive: «…l’arte e la bellezza (sono sinonimi: infatti un’arte non bella è un’arte non riuscita, una non arte) sono rimedi. L’arte è tutto ciò che resta dopo che la stessa civiltà della tecnica avrà fallito.» Evidentemente Severino non parla dell’arte come la concepiamo oggi nel mondo dell’arte contemporanea, ma ne parla come “rimedio”. Rimedio di cosa? Dall’alienazione dall’essere: funzione naturale sin dall’origine più remota.
    Gli animali non hanno arte perché vivono nell’istinto. E’ l’intelligenza razionale e operativa che contraddistingue l’uomo ad allontanarlo dall’essere. L’angoscia che sin dall’origine l’uomo prova per questa alienazione è ciò da cui nasce spontaneamente l’arte come funzione reintegrativa che lo riporta all’unità dell’essere, placandone l’angoscia della finitudine.
    Questa alienazione dall’essere è stata chiamata da più di un secolo “nichilismo” che caratterizza la coscienza contemporanea nella civiltà della tecnica. E’ da molto infatti che si disquisisce sul “tramonto dell’occidente” cioè di una fase decadente e conclusiva della nostra civiltà che stiamo vivendo oggi drammaticamente. C’è chi pensa che i problemi drammatici in cui siamo immersi si risolveranno nello stesso paradigma che li ha prodotti: razionalità, scienza e tecnica. Ma una gran parte, e ormai forse la maggior parte dei ricercatori, pensa il contrario, cioè che la civiltà della tecnica, del nichilismo e dello sfruttamento della natura è alla fine, così i suoi paradigmi. Le alternative esistono da molto in quella cultura emergente che è stata chiamata cultura postmoderna. Dunque Severino allude a un cambio di paradigma dove l’arte ritrova la sua funzione originaria di “rimedio”, in strutture che ritroviamo simili in tutte le culture arcaiche, la cui essenza, (efficacia alla realizzazione di quella unità della coscienza, che è il riavvicinamento all’essere) da qualche secolo in occidente abbiamo chiamato “bello”. Il “bello” come efficacia di un mezzo specifico non può essere dunque separato dal mezzo materiale da cui è nato, e cioè (per l’arte visiva) dalla pittura e dalla scultura, in quanto non si tratta di un’idea o di un concetto, ma di un’efficacia pratica riconoscibile solo là dove è stata coltivata da una tradizione di secoli. A questo punto introduciamo il concetto che chiarisce quanto detto. Non possiamo infatti parlare di “pittura” (che non significa nulla), ma di “essenza della pittura”, cioè di quella coltivazione della sensibilità collettiva su un mezzo specifico, che nei secoli ha portato a riconoscere una qualità: il “bello”.
    Ma l’arte postmoderna, emersa negli anni ’80, pur cercando in quella direzione è caduta in un equivoco, riprendendo sì i mezzi tradizionali della pittura, tuttavia senza comprendere la questione dell’essenza, servendosene con lo stesso criterio dell’arte contemporanea, volta all’innovazione del linguaggio.
    Si contrappongono così due visioni del “nuovo”: l’una appunto come elaborazione sempre ulteriore del linguaggio (paradigma dell’arte contemporanea, e di quella cultura dell’alienazione) l’altra come ricerca dell’essenza, che pur usando mezzi tradizionali li rinnova costantemente dall’interno, come la generazione pur riproducendo sempre la stessa struttura, produce forme sempre nuove uniche e insostituibili. Questo è il tema del mio libro Figura Solare – Un rinnovamento radicale dell’arte, inizio di un’epoca dell’essere, edito da Marietti nel 2011. Nicola Vitale

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