Sottolineando la differenza con la visione umana –la persistenza dell’immagine sulla retina–,
Carlo Mollino nota che nella fotografia si dà
“una possibilità di evasione dalla realtà visibile”. [1] Nell’ombra appaiono entità invisibili con un’illuminazione consueta, glossa Valerio Dehò in occasione d’una mostra di
Franco Vaccari. [2] Appaiono e
accadono all’“osservatore”, protagonista della scena. Ogni evento autentico è inevitabilmente una performance. In quest’ottica, anche la storia (della fotografia) e la sua teoria sono fenomeni nient’affatto obiettivi: il fotografo analizza e seleziona. Per questa profonda consapevolezza, Vaccari e Mollino sono senz’altro partigiani. Ma non si limitano a elaborare il lutto dell’oggettività: la costanza con la quale riflettono sul loro operare è sintomatica d’una ricerca inesausta. Una ricerca asimmetrica, a contrappuntare altri aspetti della ricerca, etichettabili come “razionalismo” in Mollino e “concettualismo” in Vaccari.
Il concetto chiave della riflessione vaccariana è quello d’
inconscio tecnologico [3], discendente diretto della nozione benjaminiana d’inconscio ottico. Il
medium fotografico avrebbe una strutturale capacità di cogliere un più-di-senso che renderebbe l’immagine
alter-realista. L’occultamento dell’autore [4] è la strategia che Vaccari adotta per di-mostrare questa parzialità: se la fotografia è una traccia iscritta
sul reale, l’operatore estetico deve sfumare la propria posizione, rendersi
fantasmatico. Occultare l’autore significa compiere la parabola inesorabile di autonomizzazione del mezzo. Così facendo, l’inconscio tecnologico torna all’umano nella sua forma sociale: nel passare da Freud a Lévi-Strauss, la fotografia sarà in grado di ritrarre l’inconscio collettivo. Il soggetto esce dalla porta e rientra dalla finestra con la S maiuscola.
In
Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio –presentato alla Biennale del 1972– e ancor più nell’“estensione” del progetto alle cabine Photomatic sparse sul territorio italiano, Vaccari ha provocato l’apertura di miriadi di spazi privati in spazi pubblici [5], al contempo rendendo pubblico un atto intimamente privato. Cos’altro ha fatto Mollino fotografando nudi femminili in situazioni sottratte alla
routine e immerse in una “pornografia” amatoriale? [6] (Roland Barthes ha scritto che è il dilettante colui che
“sta più vicino al noema della Fotografia”. [7]) Non è forse questo l’erotismo che Vaccari rimpiange, contraddistinto
“dal differente e dall’articolato” (in Leonardi, cit., p. 171)?
Come Vaccari si affida alla fototessera, Mollino confida nella polaroid, ed entrambi prediligono ambienti apparentemente conchiusi (le alcove di Mollino, le cabine di Vaccari); l’uno mira a occultare il lavoro “artistico”, l’altro non firma i propri scatti. Ciò non significa abbandonare il campo della riflessione.
Si prenda l’esempio del
blow up. Vaccari lo utilizza in
Mito istantaneo (1974) e Mollino scrive della
“spersonalizzazione in paesaggio da ingrandimenti parziali di superfici di nudo o di minimi oggetti”. Intento di Vaccari non è soffermarsi sull’identità nell’era tecnologica? Considerato quanto detto sull’inconscio, non gli si potrebbe attagliare la considerazione molliniana che l’ingrandimento è
“una caccia che non è ricerca attiva, ma l’assistere ad uno spettacolo di trama imprevista”? Mollino ricorda a più riprese il ruolo inaggirabile dell’inconscio nella costituzione immota del nostro archivio mentale d’immagini, evidenziando come la presunta obiettività del mezzo fotografico sia
“meccanica e non pilotabile”, l’apparecchio essendo
“quasi vivente di una sua logica indipendente”.
D’altro canto, resta altrettanto basilare la
“selezione trasfiguratrice” del fotografo, anch’essa influenzata dall’inconscio, umano stavolta. Cosicché è
dopo la stampa che si assiste alla
“rivelazione definitiva di noi stessi”. [8] Uno scenario complesso, che disvela l’
apparente semplicità dell’atto fotografico, ciondolante tra mimetismo e “artisticità”; un marasma nel quale Mollino salva pochi
artisti fotografi,
Stieglitz e
Steich,
Manuel Álvarez Bravo e
Man Ray. Perciò l’architetto torinese si affiderà presto agli scatti di professionisti per i suoi edifici e interni, mentre conserverà il
piglio del dilettante nelle fotografie femminili.
Quel che però non deve permanere nell’ambiguità è la differenza tra occultamento e anonimato. Quest’ultimo è più che mai inviso a Vaccari come a Mollino,
i quali al limite indagano la particolare eclisse del soggetto nello stato onirico, senza mai perdere di vista il fine ultimo della ricerca, il soggetto stesso, nella sua ramificata articolazione identitaria. In
Omaggio all’Ariosto (1974), ripercorrendo in pianelle l’itinerario da Carpi a Ferrara, Vaccari scatta alcune polaroid, le incolla sulle cartoline dei paesi che attraversa e le spedisce a Palazzo dei Diamanti, restituendo un volto a quei luoghi iconizzati. Per l’Epifania del 1961, Mollino invia agli amici cartoncini d’auguri personalizzati con due fotografie erotiche, e per il Capodanno del 1964 confeziona un
Drago da passeggio accompagnato da un testo e nuovamente da una coppia di fotografie
osé, in guisa d’istruzione per l’uso. [9] Dalla meccanizzazione alla personalizzazione, scopriamo la qualità ludica e insieme liberatoria dell’opera di entrambi: come ha scritto Bonfiglioli,
“l’assenza [dell’artista] si rovescia nella presenza dell’atto creativo come processo impersonale: il soggetto compare come traccia cancellata, macchina biologico-libidica transindividuale” (in Leonardi, cit., p. 11).