LA SEDIA E L’IDOLO. NOTE SULLA DESIGN ART |

di - 20 Marzo 2008
In un articolo apparso di recente sulla “Art Review”, il critico Mark Rappolt s’interrogava riguardo la seguente questione: “Quando una sedia non è una sedia? La risposta è probabilmente ‘quando è un’opera di Design Art’, il nebuloso termine che sembra essere stato lanciato in giro come un freesbee lungo gli ultimi due anni. Ma allora che cos’è esattamente la Design Art? È arte su cui ci si può sedere, o è design su cui non ci si può sedere?” [1]. Domanda interessante, a cui l’autore del testo evita peraltro di dare una risposta. A titolo personale, dal momento che sono stato di recente messo alla porta di un bar romano per essermi seduto su di una sedia facente parte -diceva il buttafuori- di un’esposizione di design, il tentativo di affrontare un po’ più da presso l’argomento mi ha tenuto piacevolmente impegnato nello scrivere queste note.
Il discorso pare dover fiancheggiare l’eterna controversia su cosa sia arte, e che cosa tale qualifica implichi di conseguenza. Lungi dal voler risolvere una discussione che, da Aristotele a Arthur C. Danto, si trascina ormai da qualche millennio, può tuttavia risultare interessante riflettere su alcune implicazioni contemporanee della questione della sedia, convinti di una natura per così dire frattale del mondo e che, dunque, un sedile possa servire ad appoggiare anche qualche idea più ampia circa il citato mondo (rigorosamente occidentale e secolarizzato, va da sé). Certo, per allestire uno spazio discorsivo più confortevole, la sedia potrebbe trovare un buon complemento d’arredo in quel tavolo di cui Karl Marx riferiva in una delle pagine più controverse del suo Capitale: “Quando se ne fa un tavolo, la forma del legno viene trasformata. Ciò non di meno, il tavolo rimane legno, cosa sensibile e ordinaria. Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse a ballare” [2]. Posto che sul feticcio della merce sono state scritte biblioteche -ultimamente, va pur detto, con pochi frequentatori dichiarati- e salva la ricchezza di spunti che se ne potrebbero trarre per il discorso in atto, come ulteriore delimitazione d’analisi chiariamo però che gli unici grilli di cui intendiamo qui curarci sono quelli parlanti a proposito dei rapporti di tipo culturale tra arte e design, tralasciando le pur rilevanti implicazioni economiche del caso.

Ora, come ben dimostra il termine Design Art richiamato in apertura, l’attuale attribuzione di uno statuto artistico ai prodotti del design industriale sancisce in primo luogo l’abbandono di alcune categorie dell’estetica dalla consolidata tradizione, che per lungo tempo hanno servito egregiamente all’uso dialettico: ci riferiamo alla distinzione tra belle arti e arti applicate (Fine Arts e Applied Arts, se si guarda al mondo anglosassone). Nessun dubbio dovrebbe in questo senso sollevarsi circa la natura di arte applicata propria del design, senza bisogno di nuove definizioni. Tale natura, tuttavia, pare essere stata ormai sopravanzata da una considerazione dell’arte come categoria totalizzante e portatrice di amplissimi valori spirituali, una categoria dal portentoso potere assorbente e taumaturgiche virtù.
Sarebbe abbastanza agevole risalire al golpe ideologico operato da Marcel Duchamp e proseguito dai concettualisti suoi esecutori testamentari -primo della lista Joseph Kosuth con la tesi dell’“arte come definizione dell’arte”, ideale cartellino della sua celebre opera sulla sedia- per trovare l’origine di tale mutamento [3]. E tuttavia riteniamo che un passo ulteriore vada compiuto, almeno fino alle soglie di quella selva romantica in cui, per quel che ci riguarda, si ritrovano ancora le autentiche radici di gran parte dell’arte contemporanea e delle sue aporie. È con il romanticismo, in effetti, che si consuma la vittoria dell’arte poetica, l’ars, sulla techné di matrice greco-latina, il trionfo di una considerazione spirituale-letteraria su quella materiale-pratica fino a quel momento predominante [4]. Si tratta di un passaggio dalle implicazioni straordinarie, soprattutto perché consumatosi come reazione ai valori della razionalità introdotti nell’Occidente dall’Illuminismo e in concomitanza alla sostanziale sconfitta culturale e politica inferta alla religione rivelata dall’affermarsi di questi stessi valori a carico della religione rivelata. Proseguendo lungo tale direttrice, viene da considerare che la nozione romantica dell’arte ha progressivamente approfittato della ritirata occorsa al dispositivo religioso per sostituirglisi nel ruolo di tramite con una dimensione spirituale di cui l’uomo sente biologicamente la necessità.

Come la religione, in effetti, l’arte esprime un bisogno primordiale di connettersi con un piano trascendente, e a questa connessione dare sostanza: se poi dobbiamo ringraziare le ricerche di scuola junghiana per aver portato in piena luce le istanze archetipiche nei confronti della sfera magico-simbolica, una verifica in termini antropologici della storia dell’arte (dalla Venere di Willensdorf al teschio ipocrita e scintillante di Damien Hirst) dovrebbe portarci a riconoscere la persistenza di simili istanze, convincendoci che gran parte delle operazioni culturali dell’uomo sono volte a soddisfarle.
Per tornare ai tempi correnti, appare dunque conseguente che una società in buona parte secolarizzata, ma che non per questo ha risolto le pulsioni magico-simboliche di cui sopra, cerchi di regolare i propri conti con il piano trascendente attraverso l’arte. Un’arte idealizzata e ammantata di misticismo fino a diventare una sorta di nuova religione, con gli artisti nel ruolo di nuovi sacerdoti -come quelli antichi, più o meno dediti al mercato delle indulgenze- o, per usare la geniale espressione coniata da Alighiero Boetti, di shaman/showman. E come per la religione, anche nell’arte contemporanea si presenta allora la questione degli idoli, delle reliquie, insomma del ricorso a entità materiali che soddisfino tangibilmente i bisogni spirituali dell’individuo, nonché la sua necessità di riconoscimento entro un orizzonte di valori e riti condivisi.
È a questo punto che il design entra trionfalmente in scena, pronto a produrre su larga scala quegli idoli di cui una parte almeno della società attuale sente impellente necessità, insufflando un’anima artistica nella produzione industriale: Design Art, appunto. Con tutto ciò non si vuole peraltro negare che le entità materiali risultanti da tale operazione non possano svolgere quelle funzioni di sollievo e contemplazione che vengono loro riconosciute, ma solo suggerire un tracciato del percorso che ci ha portato fino a questo punto, fino al timore reverenziale che molti provano dinanzi a una sedia perché investita di valenze del tutto sopravanzanti la sua immediata funzione pratica. Una funzione che la tradizionale categoria delle arti applicate non a caso si guardava bene dal disconoscere, perché non doveva fare i conti con le complicazioni derivate dalla spiritualizzazione totalizzante dell’arte e le sue incarnazioni.
Giunti al termine di queste rapide annotazioni, ci guardiamo bene dal pensare di aver risolto definitivamente la questione da cui siamo partiti. Per parte nostra, a ogni modo, protestando anche nei confronti della nuova religione una fiera laicità continueremo a sederci su qualsiasi sedia ci capiti a tiro, sperando solo che i buttafuori dei design bar in cui avremo la ventura di entrare in futuro non mostrino una fede troppo spinta nei nuovi idoli di Kartell e Cassina.

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Collect. The international art fair for contemporary objects

luca arnaudo

*La citazione in occhiello è tratta da Alessandro Del Puppo, “Duchamp e il dadaismo”, Firenze 2008, p. 8.
*Foto in alto: Joseph Kosuth – One and Three Chairs – 1965 – Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli – dep. coll. privata, Genova

[1] Mark Rappolt, What is Design Art, in “Art Review”, 12/2007, p. 90.
[2] Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma 1976, p. 84.
[3] Joseph Kosuth, Art after Philosophy [1969], http://www.ubu.com/papers/kosuth_philosophy.html.
[4] Cfr. Renato Barilli, Corso di Estetica, Bologna 1995, pp. 17 ss.


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 48. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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  • Pertinente parlare di "golpe ideologico",
    con relativa espulsione dell'arte.

  • Gentilissimo Luca Arnaudo,
    sono una restauratrice dell'arte contemporanea e del design, specializzata nel settore delle materie plastiche. Vorrei prestare un osservazione sul articolo pubblicato in data 20 Marzo 2008. Capisco bene cosa vuol dire quando parla del Design Art e mentre leggevo il suo articolo mi sono soffermata a riflettere anche sul concetto Art Design.
    “Quando una sedia non è una sedia?....quando è un opera di Design Art..”Vorrei richiamare l’attenzione su un’altra definizione: ArtDesign?
    Oggetti d’arte come quelli realizzati per mano di Gaetano Pesce sono un chiaro esempio di ArtDesign, ma potremmo definire in tale modo anche un esempio di scultura come Element Plane, 1982, di Tony Cragg?. Probabilmente sarebbe più corretto chiedere agli artisti come voglio definire il frutto delle loro idee?
    C’è una linea molto sottile che probabilmente differenzia un oggetto d’artedesign da un opera d’arte e su questo vorrei accogliere delle riflessioni.
    Grazie

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