I numeri danno subito un′idea del fenomeno. In Italia la percentuale di laureati in design è cresciuta dal 2001 al 2004 del 400% e quella di visitatori del Salone del Mobile ha registrato dal 2005 al 20007 un incremento del 64%. Un master in design alla Domus Academy costa 13mila euro + iva.
Ma queste sono solo le punte dell′iceberg. La creatività caratterizza la società e il sistema produttivo dell′inizio del XXI secolo, così come il fordismo ha caratterizzato la società e il sistema produttivo del secolo scorso. Il frenetico lavorio della tecnologia, dell′arte e del design investe oggi una quantità incalcolabile di energia per mantenere ogni aspetto della realtà in un costante fibrillazione. Questa diffusa sollecitazione delle cose, e del sentire, è a tal punto integrata nel vissuto quotidiano da non può più essere considerata un′attitudine psicologica di alcuni “creativi”, ma costituisce un vero e proprio tratto antropologico della cultura contemporanea, nella quale alle cose viene letteralmente impedito di essere
solamente ciò che sono. Ogni prodotto, servizio vive accompagnato dal fantasma di come potrebbe essere, e dalla pronta realizzazione di questa possibilità.
In questa condizione così originale la sfida del design assume caratteri molto diversi da quelli che definirono il cimento dei maestri del XX secolo. Ciò che per questi ultimi costituì un vincolo determinante, come la producibilità in serie e il basso costo, non è più avvertito come tale dai giovani progettisti, la cui irrequietezza ama cimentarsi tanto con la grande quanto con la piccola serie, tanto con i materiali tradizionali quanto con i ritrovati più avanzati della tecnologia, tanto con il riciclo (sia semiologico che materiale) quanto con il
rapid prototyping.
Anche questa è una faccia di quella condizione che Bauman chiama “modernità liquida”, in cui il progresso, reso libero dal destino unico dello sviluppo tecno-razionale, si è fatto più vivace che mai, esplodendo in una miriade di micro-direzioni instabili e cangianti che non vengono più concepite come fasi di passaggio da una situazione di stabilità a un′altra, ma come la sola condizione normale, rispetto alla quale verrebbe piuttosto avvertito come strano (o addirittura pericoloso) il non-cambiamento.
Il progetto della prima modernità trasformava la materia per costruire qualcosa. Il design contemporaneo trasforma la materia perché lo scatto
sur- che riapre ogni volta l′immanenza della realtà, e quindi la
trasformazione in quanto tale è la sola condizione possibile nel contesto antropologico in cui viviamo. Non si alterano le cose per raggiungere un risultato ma per il fatto di esperire il cambiamento. È il sentire stesso che non tollera più niente di meno che di essere riaperto di continuo al nuovo, purché (ed è questo il dato che Bauman non coglie, ma che emerge con chiarezza dalle nuove tendenze) questa apertura al nuovo non sia gratuita e fine a se stessa, ma assuma i connotati di un′evoluzione capace di raccogliere in sé la
densità del senso, seppure nelle differenti forme legate ai vari modi del sentire.
Da questo punto di vista, ciò che oggi si chiede ai designer non è più una generica capacità di produrre idee, ma una sofisticata
skill immaginifica che vada a inserirsi come chiave di volta all′interno del nuovo assetto produttivo dell′economia della conoscenza. Un tempo il fare umano aveva in sé il proprio senso, come quando dopo il lavoro di semina il grano cresceva, o come quando l′industria produceva prodotti di cui le persone avevano bisogno. Oggi che le possibilità produttive si sono fatte enormi, e il numero di prodotti supera di gran lunga quello dei bisogni, diventa più che mai essenziale progettare il
senso di tali produzioni. Che è senso emancipato e per questo tanto più esplorativo di quanto in passato sia mai stato possibile, come dimostra tra l′altro la diffusa “generosità” dei tanti appassionati che gratuitamente contribuiscono a sviluppare i
software open source come il sistema operativo Linux e la suite Openoffice.
Ma la generosità è per sua natura incontenibile. La disarticolazione della realtà alla quale il fare creativo diffuso procede senza sosta rischierebbe di tradurre ogni cosa in una effimera danza di segni, com’è successo nei “postmoderni” anni ‘80. Il compito al quale il designer è chiamato non è quindi più quello di “agitare” i segni (che sono già in agitazione da soli, senza il bisogno di una specifica professionalità che se ne occupi), ma di
tessere senso componendo le continue evoluzioni della realtà materiale e immateriale. Perché ciò che i consumatori cercheranno sempre di più non sarà quello che hanno già (creatività diffusa) ma quello di cui proprio la condizione di creatività fuori controllo in cui sono immersi genera il bisogno, vale a dire i mille e uno
sensi per i mille e uno cambiamenti che li sollecitano da ogni parte, e ai quali non sono comunque disposti a rinunciare, perché una volta guadagnato un grado di libertà non è più possibile tornare indietro, a meno di un inaccettabile impoverimento della qualità (densità) della vita.
Si delinea così il passaggio dalla R&D,
Research and Development, alla D&C,
Design and Creativity, ovvero dalla produzione intesa come strumento della crescita alla produzione intesa come strumento di creazione del senso. In una condizione antropologica caratterizzata dal cambiamento continuo e generalizzato la priorità non è più quella di spostarsi
in avanti, ma di spostarsi
ad altro, avanti o indietro, high-tech o vintage non importa, ciò che conta è che il prodotto sia “altro” rispetto a ciò che si dava un momento prima.
Questa mutabilità diffusa, che coincide con la massima esplosione di creatività (
Creativity), ha tanto più bisogno di senso (
Design) quanto più è diventata qualcosa alla quale non siamo più disposti a rinunciare. La sfida del fare propositivo, sia esso ricerca, cultura, produzione, politica o progetto, assume i caratteri dell′ossimoro, essendo chiamato a produrre “sostanza”
preservando il grado di libertà proprio della società liquida. Per questo più che di “solidità” è opportuno parlare di “densità”. È alla
vita densa che il design del XXI secolo è chiamato a dar forma, che sarà forma non statica ma pulsante.