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Laboratorio Ungheria
Politica e opinioni
di mariella rossi
Una, nessuna, centomila Budapest, città magiara, mitteleuropea, un tempo sovietica, austriaca, turca. E, da alcuni mesi, europea. Una delegazione italiana è stata invitata a vedere cosa promette per il futuro l’ambiente dell’arte contemporanea della città. Ecco l’impero art-ungarico…
Una, nessuna, centomila Budapest, città magiara, mitteleuropea, un tempo sovietica, austriaca, turca. E, da alcuni mesi, europea. Una delegazione italiana è stata invitata a vedere cosa promette per il futuro l’ambiente dell’arte contemporanea della città. Ecco l’impero art-ungarico…
L’occasione per entrare in contatto con Budapest è il launch del un nuovo sito art-hungary.com dedicato all’arte ungherese della fine del regime dal collezionista e gallerista Gaudens Pedit, che ha deciso di spostare a partire dalla prossima stagione la sua attività da Vienna all’Ungheria. Per l’evento è stata invitata una delegazione italiana capitanata da Fabio Cavallucci, direttore della Galleria Civica di Trento.
Girando per le gallerie, cenando con gli artisti, sentendo i direttori degli spazi pubblici ne è venuta fuori una città ancora timorosa di lanciarsi con decisione nel mondo dell’arte internazionale. “Una quindicina di anni fa in Ungheria praticamente non esistevano galleristi, collezionisti, promotori d’arte contemporanea. Oggi si tratta di un ambiente ancora giovane, ma in forte crescita e particolarmente localizzato nella capitale, dove non manca chi s’impegna a promuovere esperienze sempre nuove e strutture no-profit e anche chi lavora molto in rete superando i confini di una nazione ancora difficile.”, ci spiega il giovane curatore Gábor Ébli che lavora in città, ma si sposta spesso, soprattutto in Germania.
Punto di partenza di questa storia recente è proprio quella metà degli anni Ottanta raccontata dagli artisti collezionati da Pedit, quel momento in cui le gallerie e le case d’aste sono diventate legali (prima il monopolio era dell’ente statale BÁV) e si sono inserite nel meccanismo dell’economia di mercato. I primi a fiutare il nuovo affare sono stati stranieri avvezzi al mondo dell’arte, che hanno aperto strutture tutt’ora attive e interessanti. Il primo è l’americano John Gotch, un omone barbuto e alla mano, che ha aperto l’A.P.A.-Ateliers Pro Art in una vecchia fabbrica nel pieno centro di Pest: attorno al cortile interno e alla ciminiera in mattoncini rossi ruotano un ristorante, una serie di studi per artisti ungheresi e le sale espositive. Hans Knoll invece nell’89 ha aperto uno spazio a Budapest per tenere sott’occhio gli artisti dell’Europa centrale, mentre la sua galleria principale è rimasta a Vienna.
Tra gli autoctoni che si sono lanciati nell’arte c’è invece l’ideatore di MEO, uno spazio riconvertito nella periferia industriale della città e completato da un’interessante struttura architettonica con pareti esterne retroilluminate. In questo spazio privato, dotato di bookshop e caffè, ha fatto tappa nei mesi scorsi, dopo le esposizioni a Tokyo e al Platform Center di Istambul, la collettiva svedese Beyond Adornment con i gioielli per animali di Henrik Brandt e gli accessori creati con oggetti quotidiani di Aud Charlotte e Scor Sinding.
Altre gallerie aperte all’inizio degli anni Novanta sono la Varfok dell’omonima via di Buda, che tratta principalmente pittura di nomi noti nazionali, e la Gallery 56 di Sámuel Havadtőy, partner di Yoko Ono. La seconda ondata di aperture è poi quella della fine dei ’90: nel ’98 inaugura lo spazio di Erika Deák, già forte di una lunga esperienza a Philadelphia e coetanea è la Vintage, che si occupa soprattutto di fotografia.
L’importanza della rete come mezzo per uscire dai confini, per farsi conoscere e per entrare in contatto con l’ambiente esterno è ben presente invece ai tipi di C³, struttura no-profit, che nella nuova sede sulla collina della vecchia Buda è concentrata su una buona comunicazione online e sugli artisti che utilizzano i nuovi media.
Gli spazi pubblici dedicati all’arte contemporanea sono poi principalmente due: il Ludwig Museum nel Buda Castle e la Kunsthalle nella piazza di Pest antistante all’esteso parco cittadino.
Il Ludwig, aperto dal ’91 ed ora diretto da Katalian Néray, ospita al primo piano una collezione con pezzi internazionali importanti, come un Chuck Close del ’73 e un Elvis d’argento di Andy Warhol. Il secondo piano, una sala al primo e lo spazio centrale al piano terra sono invece dedicati a progetti speciali e mostre temporanee (ad esempio nello spazio centrale è stata presentata la video installazione The Bathause di Katarzyna Kozyra realizzato proprio nell’antico bagno turco della città). Alla Kunsthalle è invece di scena un progetto sull’olocausto con l’installazione Secret di Szirtes Janos sull’idea di pelle e gli autoscatti automatici degli spettatori con sovraimpresso il titolo I too am you di György Kata (una sorta di variante del progetto di Franco Vaccari).
Grazie alla presenza di questi spazi pubblici e privati l’ambiente della capitale è vivo e in piena crescita, ma risulta ancora chiuso soprattutto su artisti e collezionisti locali. Non bastano infatti curatori come Lorand Hegyi che da anni si muovono a livello internazionale e giovani critici capaci di confrontarsi all’estero come Gábor Ébli. Un sintomo di una strada lunga ancora da percorrere è ad esempio il fatto che i siti delle gallerie, i comunicati e lo stesso Index, (la guida gratuita agli spazi cittadini dell’arte) continuano ad essere tuttora presentati esclusivamente lingua ugro-finnica. Un problema non da poco per chi arriva da fuori.
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C3
La guida delle gallerie di Budapest
mariella rossi
[exibart]