A vent’anni dalla
caduta del muro è doveroso interrogarsi sulla situazione attuale, sulle
conquiste e sulle sconfitte della riunificazione tedesca, andando oltre agli
entusiasmi espressi nei festeggiamenti e alla proliferazione di manifestazioni
a esso dedicate.
Il lungo periodo
intercorso tra il 1989 e il 2009 lascerebbe presupporre un superamento di
quelle differenze sociali, economiche e culturali che si andarono sedimentando
a seguito del dopoguerra, quando la Germania fu divisa in quattro zone
d’occupazione dai grandi leader Churchill, Stalin e Roosevelt. Il muro, eretto
nel 1961, non fu altro che la risposta concreta a una necessità, quella di
impedire la migrazione di cittadini della RDT (la Repubblica Democratica
dell’Est) verso la RFT (Repubblica Federale dell’Ovest). Un atto veramente
efficace, che implicava l’esistenza di una lacerazione precedente tra i due
territori, a causa del sistema politico che li governava e delle ideologie.
E invece, ancora
oggi, gli aggettivi ‘orientale’ e ‘occidentale’ sono utilizzati da quotidiani e
riviste per connotare questo o quel personaggio; un museo della DDR è stato
aperto nel centro di Berlino, oltre che per conservare una traccia della
storia, per soddisfare il desiderio di una parte della popolazione che
rimpiange, forse un po’ anacronisticamente, una sorta di
semplicità della vita sotto il regime, con
le sue sicurezze e le sue scelte obbligate, lontane dalle libertà – a volte
terrificanti – del capitalismo occidentale.
Un sentimento
ambiguo, la cosiddetta
Ostalgie, che trova le sue origini nella reazione diffidente dell’
intellighenzia orientale, contraria alla
modalità di svendita dell’Est all’Ovest; molti intellettuali, infatti, come
Christa Wolf e Christoph Hein, si schierarono – temendo l’
Identitätsschwund (‘perdita d’identità’) – a favore
di un socialismo umano, che prendesse le distanze dall’ingerenza accentratrice
del partito e promuovesse una democrazia improntata su valori solidi,
altrettanto estranei a quelli occidentali, considerati vuoti e pericolosi (
Good
Bye Lenin,
miglior film europeo al festival di Berlino del 2003, ricreava fantasticamente
un socialismo ad hoc per restituire dignità alle aspettative disattese).
Lo slogan “
Non
siamo in svendita. No alla Repubblica delle banane” simboleggiava proprio questa
visione preoccupata (le banane, merce introvabile della RDT, impersonavano il
tipico desiderio dell’
Ossis quando si recava all’Ovest). D’altro canto, il fatto che
oggi l’omino del semaforo, l’
Ampelmann sia diventato addirittura un marchio e una catena
di negozi, fa pensare che la previsione più nera si sia avverata, che di quei
simboli non resti altro valore che la loro estetica
vintage (oggetti
cult come l’automobile
Trabant, il cetriolo dello Spreewald e gli stessi pezzi di muro ridotti a feticcio da
merchandising).
Certo è che la
libertà ha il suo prezzo, e la democrazia si pone come un territorio incerto,
dove la responsabilità è affidata alla volontà dell’individuo e non
all’imposizione violenta e dove ciascuno ha l’obbligo di impiegare le proprie
risorse per riscontrare un riflesso e un’appartenenza nella società.
È quindi giusto e
sacrosanto che sia celebrato e ricordato quel 9 novembre 1989 e che le nuove
generazioni possano leggere nell’entusiasmo di quel giorno l’affermazione di un
valore che nessun uomo ha il diritto di mettere in discussione.
Allo Spazio Oberdan
di Milano è proposta un’interessante testimonianza fotografica,
Aldilà del
muro a cura di
Lorenzo
Cappellini,
fotografo che ha documentato in presa diretta la felicità e l’entusiasmo del
popolo durante la liberazione pacifica e il coinvolgimento mondiale
all’avvenimento; sempre a Milano, il Goethe Institute ha organizzato una
performance (
Geboren zum fallen. Born to fall) alla
stazione Garibaldi, dove due gruppi di artisti si sono affrontati ricordando
Berlino.
A Firenze, il
Deutsche Institute (nell’ambito della manifestazione della Regione Toscana
Prima
o poi tutti i muri cadono) ha ideato un happening in Piazza Strozzi per abbattere un muro
fittizio, dando la possibilità ai partecipanti di riviverne simbolicamente
l’emozione e di ripercorrerne le tappe attraverso il graffito (strumento
cardine della sua negazione).
A Roma (dove un
pezzo di muro assai verosimile è stato ricostruito in Piazza di Spagna),
l’associazione Wunderkammern presenta un ciclo d’interventi creativi a opera di
artisti internazionali, che per otto giorni operano per rappresentarne la
memoria critica; tra questi, il tedesco
Gunter Schäefer, da vent’anni impegnato nella
causa, autore del murales
Vaterland (bandiera tedesca con in centro la stella ebraica,
mistificato più volte dalle calunnie neo-naziste) sulla East Side Gallery di
Berlino (restaurata integralmente in occasione del ventennale), il chilometro e
mezzo di muro che, nel 1990, fu dipinto per la prima volta, sul lato orientale,
da un centinaio di artisti, andando a coprire il grigio del cemento con
messaggi di pace, speranza e tolleranza.
La demolizione del
muro non ha certamente potuto risolvere tutte le corpose problematiche che lo
tenevano in piedi, ma ha rappresentato l’atto d’inizio di una nuova era.
Rimettendo nelle mani degli individui la facoltà di scegliere, con tutti i
rischi che ne conseguono. Anche quello di sbagliare.