-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
L’arte al tempo di (d)OCUMENTA
Politica e opinioni
La rassegna che si è aperta a Kassel pone domande sulla natura dell'arte oggi. Almeno di quella che ci ha proposto Carolyn Christov-Bakargiev. Dove si rivedono opere "belle" quasi in senso classico, sebbene fortemente conflittuali. È un ritorno indietro, una prospettiva che dice poco al pubblico più giovane, meno interessato a temi come la vita e la morte? O segna la riappropriazione di un codice autentico dell'arte? [di Adriana Polveroni]
Le persone incontrate a Kassel durante la preview di questa 13esima edizione di Documenta erano per lo più soddisfatte, a parte qualche eccezione. Indubbiamente la qualità delle opere proposte è piuttosto alta e molto evidente è l’impegno concettuale che l’ha resa possibile, nonché lo sforzo organizzativo. Non tanto le altre tre sedi dove ha luogo, a Kabul, al Cairo e in Canada, ma per la quantità dell’offerta a Kassel stessa dove, forse per la prima volta, Documenta ha scavalcato le canoniche sedi del Fridericianum, l’Orangerie, la Neue Galerie e Documenta Halle per depositare la sua presenza in luoghi sconosciuti, a volte piccoli e nascosti, come case e altri spazi che – ci chiedevamo in molti – come hanno fatto Carolyn e il suo staff a scovare? Oppure molto grandi, con un sapore del passato e di délabré che, specie per il primo, molto riguarda l’appuntamento di questa edizione.
Non voglio soffermarmi particolarmente sulle opere, di cui ha già scritto per Exibart Ludovico Pratesi, con il quale concordo quasi interamente nella segnalazione delle più significative, alle quali aggiungo la potente e articolata installazione di Adrian Villar Rojas su un terrazzamento di giardini che ricoprono il bunker (luoghi difficilissimi da trovare), il quale invece ospita un video poco interessante di Allora & Calzadilla, i disegni su cartone nero che ritraggono il profilo delle montagne afgane fatti da Tacita Dean e perfettamente allestiti in un ex ufficio bancario, la mostra, perché di questo si tratta, che il libanese Walid Raad ha realizzato in uno spazio dietro il Fridericianum.
Opere intense, quindi, come da tanto tempo non si vedevano in una grande rassegna del genere, con alcune sbavature: a mio modesto parere, il lavoro di sponda composto da uno slide show e da alcuni testi con cui Mario Garcia Torres omaggia Alighiero Boetti è piuttosto didascalico fino a rasentare la pedanteria e soprattutto non coglie lo spirito critico e gioiosamente inventivo dell’artista italiano. E, molto più di questo, mi sono sembrate inutili altre opere, concentrate soprattutto nel lato sud della stazione, di cui non ho colto il senso e la cui assenza penso avrebbe giovato a Documenta. Rendendola più concentrata, più tesa, più esplicita in quello che vuole dire.
E qui sta il punto, che mi ritorna su da qualche giorno, come un nodo non risolto, che devo esplicitare forse anzitutto a me stessa e che mi ha convinto a scrivere.
Che operazione è quella messa in piedi da Carloyn Christov-Bakargiev in quasi cinque anni di lavoro? Sicuramente molto ambiziosa, non solo per la presenza massiccia di “partecipanti”, come lei ha definito non tanto gli artisti, ma i molti scienziati, scrittori e studiosi in genere che ha chiamato a raccolta a Kassel, per dare corpo alla sua idea “olistica” dell’arte come linguaggio capace di incrociarsi nel profondo con altri linguaggi e scambiare con questi domande, più che saperi. Interrogazioni che scavano nella carne viva di questo nostro mondo. Soprattutto nelle ferite del passato, di cui il degrado o la mediocrità del presente sembrano essere legittimi eredi.
Mi ha colpita la quantità di artisti morti proposti in questa Documenta, a partire da quei due artisti italiani dai quali per buona parte si snoda: Mauri e Boetti, la memoria da un lato e, dall’altro, il gesto quasi eroico di “mettere il mondo al mondo” attraverso la reinvenzione artistica che non si propone come tale, ma si distribuisce nell’apparente semplicità di gesti quotidiani e quasi banali, nella capacità di partorire un nuovo mondo da questi. In altri casi gli artisti scomparsi sono morti tragicamente, vittime della violenza che ha segnato alla radice il ventesimo secolo, con le sue dittature e i suoi orrori. E la morte tutta, da quella degli oggetti riuniti nella Rotonda: resi statici e immortali da Morandi, feticizzati da Lee Miller, distrutti dalle guerre, eterni come le commoventi statuette delle principesse bactriane, abbandonati e quindi probabilmente dolenti come nel video del cambogiano Vandy Rattana – una delle intenzioni di Carolyn era dare voce al vissuto degli oggetti. Non ci è riuscita, ma quasi mi commuove il suo tentativo di questa campionatura che sfida l’antropocentrismo – accanto a una quasi speculare nostalgia di una felicità perduta, attraversa dolorosamente la sua (d)OCUMENTA.
Come si colloca l’arte che ci ha proposto Carolyn in questo scenario? Mi sembra farsi avanti un’idea di essa come cura, rimedio, non buonistico né banalmente consolatorio, ai mali del mondo. A quelle ferite su cui lo sguardo di (d)OCUMENTA si poggia. Il Sanatorium costruito nel parco di fronte l’Orangerie dal messicano Pedro Reyes con la sua offerta di cure per ripristinare uno stato di salute mentale, fisico, sensuale (aggettivo su cui il direttore artistico ha molto insistito), mi sembra andare in questa direzione. E così l’installazione che Pierre Huyghe ha realizzato sempre nel parco dove, tra tanto disordine, emerge una figura epifanica, classica e conflittualmente mitologica insieme. E la potente stanza di Kader Attia, dove le ferite della guerra che gli uomini fotografati portano scolpite sul proprio volto evocano il montaggio paradossale dei tratti che troviamo nelle maschere africane. Non tanto una semplice coincidenza, quanto un voler dire che c’è l’arte, sebbene primitiva, che si incarica di rappresentare, e forse salvare, la bellezza perduta del mondo occidentale. E il sanare una ferita mi sembra anche il senso del gesto, fatto da Christov-Bakargiev, del piantare l’albero di mele create dal botanico Korbinina Aigner, finito a Dachau.
Riporto questi quattro esempi, ma la nostalgia di un’innocenza e di una felicità perdute è molto forte anche nei disegni di Tacita Dean: l’arte può rendere indelebile, almeno visivamente e simbolicamente, un paesaggio e una memoria. Può curare l’anima come suggerisce Fabio Mauri con una asciutta e lucida capacità di sintesi e senza scendere a compromessi.
Un’arte di siffatta natura mi sembra si rivolga molto alle corde emotive di persone non più giovani, come è Christov-Bakargiev e molti di noi che hanno visto la sua (d)OCUMENTA. E che hanno l’esigenza di ritessere dei fili, anzitutto della propria memoria, che hanno visto, almeno alcuni, parte di quel passato da cui parte e che sono scettici rispetto a un carattere esclusivamente sovversivo dell’arte, alla Zmjewski per intenderci. Non scommettono sulla sua possibilità di intervenire, e cambiare, lo stato delle cose, annullando la sua presenza materica, sensuale e sensibile (direi quasi estetica) per farsi linguaggio altro, agibile veramente da molti “partecipanti” che con l’arte hanno poco a che fare.
È un ritorno all’ordine dopo tentativi, quasi disperati, di negare e rivoluzionare le pratiche artistiche, fluidificandole e facendole scontrare direttamente nel mondo? Non penso. Sarebbe comunque un giudizio avventato. Sicuramente Carolyn ci ha fatto vedere un’arte capace ancora di rapire lo sguardo. Spesso poetica, forse romantica, immaginifica, come è nella stanza traboccante di immagini e sensazioni di William Kentridge e, in misura ridotta, di Nalini Malani. Un’arte che si pone da un’altra parte rispetto alla radicalizzazione della mediazione sociale e politica che ha cercato di incarnare negli ultimi anni. Che in un certo senso torna alla sua dimora originaria, non negando i conflitti, anzi tentando (perché solo un tentativo appare la scelta di spingersi in quel luogo dei conflitti per antonomasia che è Kabul) di farne parte. Di esserci, ma dalla propria parte. Articolando un linguaggio quasi antico, mi viene questo aggettivo, forse improprio. Un linguaggio classico, che non distingue molto tra conflitti umani e epocali, rintracciando nei primi la radice di questi ultimi.
Ha senso un’arte del genere oggi o segna un ritorno indietro? È una domanda che apparentemente (forse solo apparentemente) lascia pochi spazi di mediazione. Occorrerà tempo per rispondervi, e per capire e valutare questa (d)OCUMENTA.