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L’ARTE DEL BUFAGO
Politica e opinioni
di giovanni lista
Avete presente quando, guardando i documentari in tv, vi imbattete in qualche reportage che racconta la vita di quell’uccellino parassita che campa mangiando larve e batteri sul dorso di ippopotami o fra i denti di coccodrilli? Ecco, immaginatevi il volatile come se fosse l’arte contemporanea e il bestione come fosse l’arte classica...
Avete presente quando, guardando i documentari in tv, vi imbattete in qualche reportage che racconta la vita di quell’uccellino parassita che campa mangiando larve e batteri sul dorso di ippopotami o fra i denti di coccodrilli? Ecco, immaginatevi il volatile come se fosse l’arte contemporanea e il bestione come fosse l’arte classica...
Esiste una chiave teorica
specifica attraverso la quale rapportarsi all’arte contemporanea e cogliere
l’essenza della sua relazione strutturale con il passato da cui proviene? Se si
dovesse individuare un’immagine in grado di condensare simbolicamente il
rapporto fra arte postmoderna e arte del passato, sarebbe probabilmente quella
dell’uccello-zecca che lavora sul dorso di animali erbivori di grande taglia
nelle savane. Il bufago (latino buphagus) si sistema sulle spalle d’ippopotami, giraffe,
rinoceronti o bufali, saltella sul mantello, si appende a testa in giù sotto il
ventre, sale e scende fino agli zoccoli e poi fin sopra il naso, e lì si nutre
di piccoli parassiti e larve che si annidano tra i peli o nelle ferite
dell’epidermide. Per il suo sostentamento, il bufago si affida quasi
esclusivamente a ciò che trova sull’animale che lo trasporta e quest’ultimo, a
sua volta, approfitta dell’opera di “disinfestazione” offerta dal volatile: le
due specie convivono secondo una relazione che la scienza definisce “simbiosi
mutualistica”, dalla quale l’animale “ospite” e l’uccellino “simbionte”
traggono un individuale beneficio e un reciproco vantaggio.
Istituendo, come proprio atto
fondativo, una rottura col modello artistico tradizionale, che diventa così un
parametro sempre presente, anche se talvolta nella modalità dell’assenza,
l’arte contemporanea costruisce il proprio discorso estetico, la propria
dimensione performativa e consistenza ontologica in rapporto dialettico ma
imprescindibile con l’arte da cui prende le distanze, collocandosi sopra,
sotto, al fianco di quest’ultima, con lo stesso atteggiamento irriverente e
spregiudicato con cui il bufago sceglie il suo ospite e vi si installa, traendo
da esso nutrimento e vita, e restituendogli in alcuni casi nuova linfa
comunicativa.
L’associazione d’idee si fa in
modo istintivo, tanto in rapporto alle dimensioni quanto all’atteggiamento.
Conosciamo tutti l’immagine di un grosso bisonte del deserto, inconsapevolmente
coronato dall’uccellino che troneggia sul suo capo, o quella di un feroce
coccodrillo che tiene le fauci aperte per permettere di far pulizia di avanzi e
parassiti annidati fra i denti al volatile, che trova, in quella posizione,
cibo e protezione. Ed è più che facile, oggi, rintracciare nel monolitico
animale ospite l’arte del passato, e nell’impudente uccellino l’arte
contemporanea. Questa simbiosi biologica che si stabilisce in natura è la
situazione ricorrente nella prassi comunicativa dell’arte contemporanea e nel
modo in cui quest’ultima cerca strategicamente di proporre, sostanziare e
legittimare se stessa.
Quando traduceva nel linguaggio
estetico pop La Grande Odalisque di Ingres, Martial Raysse faceva apparire una relazione funzionale positiva, che
rivisitava e riattualizzava la natura dell’opera tradizionale. Roy
Lichtenstein
creava inediti originali quando riformulava in versione pop e technicolor la
serie delle Cattedrali di Rouen di Monet o il Cavaliere rosso di Carrà. Rinvigoriva in modo ludico il potere di suggestione dei
capolavori dell’arte, riproponendoli smerigliati in una trama puntiforme in
pieno stile meccanico da stampa tipografica.
L’arte delle neo-avanguardie,
sostenuta da una tensione di trasgressione estetica, si affermava
giustapponendosi in modo diretto alla monumentalità dell’arte passata,
evidenziando per contrasto la portata anticonvenzionale del proprio registro
formale o concettuale in rapporto alla perfezione normativa del canone
classico. La rottura linguistica era attuata attraverso una relazione
dicotomica immediata con i più imponenti paradigmi di adesione al modello
formale tradizionale. Poco più tardi, con l’avvento del postmoderno, Pierre
Restany poteva ancora parlare dell’arte contemporanea come di un gesto di
appropriazione e “riciclaggio” delle opere del passato. Pur nel segno di una
comune finalità di emergenza per contrasto, i vari orientamenti contemporanei
sembrano cercare invece un rapporto parassitario, prima che mutualistico, con
il patrimonio artistico a fianco del quale s’installano, che diventa in questo
modo la fonte primaria, o quantomeno strutturalmente complementare, del
discorso concettuale ed estetico perseguito.
L’arte del bufago accomuna e
caratterizza in particolare il lavoro dei giovani e dei meno giovani che fanno
l’attualità dell’arte italiana. Penso a Roberto Cuoghi, Nico Vascellari, Adrian Paci, Patrick Tuttofuoco, Rä di Martino, Pietro Roccasalva (nella foto l’installazione Z, 2008), ma anche a Vedovamazzei e Francesco Vezzoli. L’arte del bufago è quella del
remix, dell’ibridazione, della ripresa feticista, dello spostamento
concettuale, del citazionismo saturato che diventa identificazione mimetica. Il
fenomeno è internazionale: basti ricordare gli interventi parassiti di Gary Hill, Sarkis, Ange Leccia, Jan Fabre e tanti altri sulle opere del
Louvre. La messa in scena del duetto, del contrappunto che articola e gioca
sulle diverse possibilità di lettura, documenta in realtà un recupero
parassitario dell’ingombrante paradigma del passato, senza il quale le idee
stesse degli artisti non avrebbero valore né efficacia. Detto altrimenti, la
modernità delle avanguardie era nata contro il museo, oggi invece è proprio il
museo che appare come supporto e parte integrante delle opere contemporanee.
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*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
Invece di leggervi simili scemenze, perché non vi comprate “Il disagio dell’estetica” di Jacques Rancière? 15 euri e passa la paura della rottura post-moderna nell’arte. Che, ha detta del filosofo francese, non è mai esistita…